Tra cause e alibi
A quasi tre anni dall’inizio della pandemia ci troviamo quotidianamente ad affrontare le conseguenze non solo di mesi di emergenza sanitaria, ma anche di quelli che sono stati periodi di isolamento piuttosto prolungati, che hanno messo le persone di fronte a problematiche mai considerate prima. In particolare ultimamente viene affrontato spesso il tema del peggioramento delle condizioni psicologiche e neurologiche della popolazione dopo i cambiamenti avvenuti, e dai dati che si sono ricavati risulta evidente che questa sia una questione assolutamente rilevante. È ormai provato infatti che la prima quarantena sia stata seguita da un aumento di patologie come disturbi del comportamento alimentare, depressione, ansia sociale, attacchi di panico, per non parlare poi di un incremento allarmante di aspetti e dinamiche complesse come le violenze domestiche e gli abusi in ambito familiare, tutti motivi per cui sembra essere nata una nuova sensibilità verso queste tematiche. Detto ciò, parlando di fragilità emotiva e di difficoltà relazionali come di un fenomeno che saremo destinati ad affrontare in quanto mera conseguenza di questi anni così complessi, si rischia di dimenticare quanto la situazione fosse preoccupante già prima del COVID in Italia e all’estero. Se infatti si cercano studi dedicati al peggioramento delle condizioni mentali della popolazione dopo la pandemia, uno dei primi a comparire è quello dell’Università della Salute Pubblica di Boston, ovvero uno studio che ha coinvolto 5065 partecipanti volontari disposti a monitorare le proprie condizioni fisiche e mentali. Dopo la prima quarantena è stato dimostrato che il 27,8 della popolazione americana presentava severi sintomi di depressione clinica. Quando lo studio è stato ripetuto l’anno dopo, la percentuale era ormai del 32,8%. Questi dati sono ovviamente preoccupanti, tanto che un lettore tende senza nemmeno intenderlo a tralasciare un fatto piuttosto significativo, ovvero che già prima della pandemia l’8,5 % della popolazione presentasse già sintomi considerevoli, e che le categorie più a rischio fossero i giovani e le comunità piu’ trascurate dalla società. Per quanto riguarda gli abusi domestici l’essere costretti in casa ha ovviamente favorito l’aumento di un fenomeno che nel nostro paese tuttavia molto spesso ci dimentichiamo essere un continuo susseguirsi di tragedie quotidiane, e che rappresenta un problema concreto da molto prima della comparsa del virus. Questa ‘’riscoperta’’ del disagio dilagante nella società occidentale avvenuta nell’ultimo periodo rischia di risultare piuttosto ipocrita, o come minimo di sottolineare l’incapacità e la noncuranza con cui fino a poco fa sono stati trattati certi argomenti considerati spinosi o scomodi perché riguardanti solo una percentuale ‘’irrilevante’’ della popolazione. Adesso che invece questo disagio ha toccato ognuno di noi direttamente o indirettamente senza fare sconti a nessuno, ecco come tutti si preoccupano di come affrontare il proprio futuro, gli insegnanti si rendono conto del cambiamento avvenuto nei ragazzi, i genitori si sentono spesso incapaci di aiutare i figli, e le tv e i giornali parlano della nuova generazione come spacciata in ambito relazionale. Ora, che la società si dimostri particolarmente compassionevole nei momenti di maggiore crisi è naturale, e se ci si pensa questo non è nemmeno qualcosa di negativo, anzi, ma al giorno d’oggi più che mai non è possibile sperare o credere di poter affrontare le difficoltà solo quando queste risultano ormai insormontabili, ed è quindi evidente che non curarsi dei problemi sul nascere ci rende solo più impreparati ad affrontarli in grande scala durante le emergenze.