Ultimamente mi è capitato spesso di imbattermi in video prodotti e pubblicati dal canale youtube della rivista Vogue, in cui una decina di modelle vengono intervistate e invitate a parlare delle difficoltà e degli standard  elevati che hanno dovuto e devono affrontare quotidianamente in ambito lavorativo.

Il concept di questi video è piuttosto semplice  e fa parte di una serie di manovre di marketing che molte testate giornalistiche e case di moda stanno attuando per distaccarsi dall’immagine che raffigura (oserei dire giustamente) l’industria come tossica e fondata su pregiudizi e ingiustizie. Ora, gli interventi di queste giovani ragazze dovrebbero fare sentire lo spettatore medio coinvolto, rappresentato e apprezzato, dimostrando quanto il mondo del glamour non sia solo lusso e sfarzo e dando una nuova visione di bellezza che risulti più inclusiva rispetto a quella che viene promossa in passerella da decenni a questa parte; ma basta leggere i commenti sotto a queste interviste per rendersi conto che molto spesso l’effetto ottenuto è esattamente l’opposto. Tra chi si lamenta della poca credibilità delle parole dette e chi non riesce a vedere la coerenza dietro queste azioni, la domanda che viene posta più spesso è: ‘’certi discorsi non risulterebbero più d’effetto e utili se non venissero fatti da coloro che non hanno fatto altro che arricchirsi perpetuando le problematiche che ora condannano?’’. E in effetti il modo sbrigativo  con cui  l’industria  della moda tenta di trattare temi come i disturbi alimentari, il razzismo e l’omofobia non riesce proprio a essere recepito come genuino, a partire dal fatto che la parola e  le ‘’dichiarazioni scomode’’ progressiste  vengono sempre lasciate alle modelle (spesso vittime) e mai ai direttori artistici, agli stilisti e a coloro che si occupano dei casting, che hanno sulle spalle le responsabilità maggiori quando si tratta di influenzare le masse.

Penso che il problema maggiore in questi casi sia il fatto che in molti settori la rappresentazione venga vista come un trend passeggero e non come qualcosa di più profondo e complesso, che non deve essere fatto come un ‘’favore’’ al lettore e allo spettatore come forma di contentino, ma come qualcosa che porta con sé delle conseguenze serie sulla psicologia delle persone. L’incapacità di riconoscere la propria complicità ignorando certe azioni e sperando che anche tutti intorno se ne dimentichino per me è il motivo principale per cui l’universo della couture, così come  Hollywood, non riescono a trovare un loro spazio concreto in ambito di inclusività, o almeno non senza risultare ridicoli agli occhi del pubblico. In conclusione mi sento di dire che credo che ci vorrà ancora del tempo prima di riuscire a vedere un allentamento delle pressioni che vengono imposte dal canone estetico, e che non riesco a non ridere quando a  fine intervista una serie di ragazze bellissime si ritrovano a dire che ‘’al giorno d’oggi per fare la modella servono solo sicurezza e fiducia in sé stessi’’; ma allo stesso tempo credo che si debba cercare di vedere il lato positivo e realizzare che una ventina di anni fa certi argomenti non sarebbero mai stati trattati, e mi costringo a prenderla come una piccola rivincita.

2 pensiero su “L’inclusività secondo Vogue”
  1. Articolo molto interessante…in effetti l’industria in generale manovra ciò che è considerato “di moda” in questo momento, spesso facendo un vero e proprio “body positivity washing” finto e costruito per attirare i consensi.
    Diciamo che, se vogliamo guardarla in un’ottica più positiva, hai ragione: che sia in voga l’inclusività è meglio, anche se abbastanza di facciata.

    PS: sono la ragazza che c’è al mercoledì alle ripetizioni di Pastorino
    Ciao!

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