Le Possessioni
O I Viaggi e gli Incontri Bizzarri del Bruno alla Ricerca del Santo Graal.
Salve, amici lettori!
Chi ha letto il mio precedente articolo sa che il poema di cui stiamo parlando è di nostra analisi perché sembra contenere dei riferimenti a Diotelo Macellai, per cui sarebbe possibile, se si potesse datare quest’opera, datare anche l’opera del Maestro Macellai. In particolare, questo canto deteniene una particolare descrizione di Aiace che prima non ho mai letto, per cui i riferimenti qui potrebbero costituire elementi di altra ricerca sul tempo in cui quest’opera fu scritta.
Aspetto i vostri pareri, nel frattempo questa è l’opera di Bruno.
Canto II
“Avanza, uomo, la visione e il passo (I) già presso il varco di rovi, e avante dove si spinsero in battaglia Achei e in Ade etterno anime sì tante, ‘ché Aiace dal profondo buio è tratto un istante; ti sarò io alle spalle.” dice la selva alli orecchi miei (II) con voce uniforme sopra, dietro, nella terra, e tuonando avanti mi spinge là dov'era il fiume. Le ciglia come in sonno, chiedo a lei: “è della selva il suono o degli dei?” Risponde: “Figlia di Zeus, protettrice (III) della città marmorea ove Socrate fece nascere ragione io sono. Afferrai quel dì del padre la folgore: là io fui Atena e con ella trafissi Aiace: salvai i compagni, e non lui". Avvicinandomi allo dolce suono, (IV) mi ritrovo or circondato da spine d'ogne direzione, e tra quell’erba vedo spuntar un nero crine e duo braccia abbandonate al suolo: rotto e sconfitto, lì stende’l grand’Acheo. E gran dico, ‘ché tre volte mi pare (V) il corso tra gli indici ampi d’un uomo che volesse con quelli, come un’aquila, capir gli estremi punti del mondo. Vedo il corpo con un respiro alzare lento i muscoli, simili adesso a carta. La sua stazza nuda, scarna e sciacqua (VI) torreggia su di me anche in ginocchio, un palmo all’erba, avambraccio’n coscia, mi scaglia come un dardo un occhio, traendo da terra scudo, si alza crògiolo, e afferra piano il ramo di una quercia. “Fossi re, o uomo, di questa foresta (VII) ti darei gli onor che lungo tempo i saggi capi diedero ai viandanti, ma d’ista erba non domino un lembo, anzi, forza in corpo non mi resta se non per chieder: qui, cosa t’arresta?” Atena ancor non ho risposto e a entrambi (VIII) i’ sto a dar parole a tale guisa: “Pallade dea mi portò allor’ivi, ed è onor mio averla’n guida, che sia per perire tra pochi canti o per aver lo sguardo sempre avanti. Sebbene sappia, Aiace, che in antichi (IX) tempi ti fu nemica, e t’accecò, chiedo udienza a te anche in suo nome: il mio è Bruno, e sangue tuo io cerco.” così al gran flagello degli Argivi io dico, mentre egli sta ammutolito. Rompe la quiete della selva e dice: (X) “Non mi fu avversa, mai, la dea, ‘ché predato da lei io non fui, mosse l’ira mia tanto rea verso altro d’Acheo: come poi Achille non vissi pochi e brevi anni, ma mille. Furon più di me gli uomini folli (XI) che passaron l’armi d’oro a Odisseo in base al grande ingegno, tralasciando il legame di sangue che creò la famiglia e la guerra. Dico folli, Bruno, più di me: un esercito di folli! Dopo il cugino, Bruno, io seguendo (XII) ero il primo tra i Greci, e l’onore mi fu tolto in poco tempo a tale modo”. Interrompe’l conto e sento l’ore passare in lenti minuti, e andando con gli occhi quieto sul suo corpo osservo la carne sua verdastra e il volto torto (XIII) che vuol bagnarsi di lagrime calde e non rïesce, sotto la pelle vedo l’osso del gigante e non il sangue della ricerca mia cocente il parto per cui fors’io mi sto rendendo pazzo. “Ma ‘nfine me lo presi e me lo tengo (XIV) (or alto e fiero), ciò non posso dire però, del sangue e della vital linfa -e ancor ciò mi fa molto patire- ch’abbandonai nel gesto estremo da cui non posso tronare indietro. Se tu lo cerchi, da me non lo avrai (XV) ‘ché nemmen’io l’ho nel mio stesso corpo.” diceva queste cose con la voce che la dea muoveva con il morto e le sue labbra, simill’armi che mai lasciarono le mani degli Achei. “Ma come feci questo grande errore, (XVI) Aiace, chiarissimo guerriero, che ti sconfisse prima d’un glorioso Troiano in duello, un Ettore, qualcuno che potesse pareggiare il tuo valore così alto d’eroe?” “Sbagli, uomo, se credi che fui borioso (XVII) o prematuro nella mia morte cheta: agii per vivere oltre l’oscuro passo tanto ch’anche adesso tu me vede”. Non volendo credere al suo orgoglio, “Aiace”, grido, “tu sei ancora cieco! Atena parla per te, ma ti sento (XVIII) sotto la pelle dire d’altro: tu covi paure, da allora fuggi i fronti, ‘ché amico il tuo non fu. Dea, allontanati e ridagli il senno: l’uomo è lontano da quell’empio danno”. Passano alcuni istanti e fior selvaggi (XIX) sbocciano ai suoi piedi. Getta le mani a terra, si piega e ogni muscolo contrae ch’ha in corpo, come gli uragani con un boato scuote le radici degli alberi, e persino del sole i raggi. Sospirare vedo il titano quérulo (XX) abbandonato adesso il grande fiato, tutto tremante pone fronte a terra e ancora espira quietamente. <<M’hai riconosciuto, amico Bruno,>> dice piano: <<gli aedi ho inseguito, ma altro ha inseguito me, che errai (XXI) lontano da quella, dove nessuno poteva seguirmi, se non morendo. Oh Bruno, tu lo sai, io temevo più d’ogni di fallire ed ho fallito.>> <<Aiace, sciocchezze avevi perduto!> <<Non le armi persi,>> dice <<col senno (XXII) o l’onore, che mi fece abbattere me medesimo con gloriosa lama. Mi abbandonò il coraggio, anzi la paura m’assalì ‘sì forte quando la guerra fu data a Odisseo. Lui, Bruno, lui l’alta rocca Troiana (XXIII) mise in ginocchio con il suo cavallo, inganno pavido, ma necessario per portare a termine lo stallo. Fossi stato io il primo l’avrei abbattuta con la mia forza, invece impotente. Mi paventai di mancare il migliore (XXIV) e ciò non volli scoprire in guerra. Se un Ettore avessi sfidato, forse avrei posato sotto all’erba. Come Dafne fuggii e mi feci alloro fuggendo ciò che fa grande timor. Atena furia trasformò in follia, (XXV) lanciandola ove sarebbe onore stato meno leso, mi diedi al suolo solo, senza i colti dal furore. M’accompagnò, tornata vista mia, a un atto di razionata follia.>> <<Non capisco, figlio di Telamone, (XXVI) come abbia potuto perdere ‘sì presto un sentimento tanto puro che so tu aver, come me, diviso con la donna che cercò in te ragione, per la stessa cagione ch’io chiamo amore.>> <<Questo, chiaro amico, anch’a me è oscuro. (XXVII) quella tenera euforia ho ridato alla guerra, amata sempre mutevole, che tanto m’ha attratto e respinto ch’io divenni onde separato stanco di quel sentimento, e odiai il resto. Io, Aiace, rotto dalla terribile (XXVIII) pena che accomuna chi ama e ch’amato, caduto alla medesima abominevole paura che morte e vita portano; non fui che l’ultimo all’insommortabile passo che la Moira avanza invisibile. Ma so che quell’amore miserevole (XXIX) tu, Bruno, ancora hai vivo nel corpo, per questo ti dico: vai dov’andò Tommaso quando la dea lo prese”.>> Dopo di che pone il capo al suolo, e scende lentamente dalla selva. Torna alle profonde piane dell’Ade (XXX) e sono solo nella foresta, la dea dice: “Riavrai la tua cecità”: vedo un velo stendersi dall’alto su di me, mi copre e caddi, infine, come corpo morto cade.