Crebbero Horus lungo le verdi valli lungo il Nilo, fuori da Menfi, dalla madre e da Nefti, di nascosto, ma in quanta più tranquillità potessero offrire lui.

Il suo nome significa “falco”: il falco pellegrino, che in Egitto è diffuso presso le zone del Nilo, le terre più rigogliose, e vola nella sua impossibile fin sopra le vette, fin quasi a toccare il Sole.

Nei suoi occhi diversi era il cielo: il suo occhio destro, ambrato, era il giorno, il Sole, il sinistro, blu scuro, la notte e la Luna.

Horus, memore della vista del padre di quando era ancora piccolo e della sua preghiera, aveva in seguito appreso quello che era successo al regno paterno. L’usurpazione.

Durante la crescita si era prefissato un obiettivo primo: vendicare suo padre.

Ma Iside lo metteva in guardia da uno scontro diretto con Set: temeva per il figlio che aveva cresciuto con tanta cura e fatiche. Uno dei due sarebbe dovuto morire. E questo la distruggeva.

Anche Horus esitava, sentendo le preoccupazioni della madre.

Lui voleva la pace; non avrebbe voluto prendere il potere con la guerra.

Osiride avrebbe voluto uno scontro aperto? Con suo fratello? Turbare la pace del suo regno?

Horus non conosceva bene suo zio. Ma era pur sempre suo parente.

Ma d’altra parte Horus era impulsivo e volubile come il vento. Era necessario lo scontro, pensava.

Ora sapeva che non si parlava più di due regni distinti. Set teneva in pugno tutto l’Egitto. Fare di due popoli uno… Horus avrebbe riportato l’ordine. La preghiera a Ra.

Poteva radunare un esercito: aveva ogni diritto ad averne uno, in quanto principe. Ma era un principe senza esserlo: un principe che non poteva nemmeno entrare in casa sua senza rischiare di essere ammazzato.

Che principe era? Che diritti aveva?

Sì che li aveva. E per essi doveva fare giustizia. Ma come?

 

Set aveva conquistato l’Egitto. Tutto il popolo, o quello che ne era rimasto, era a suo favore. E gli oppositori: schiavi. O con la testa mozzata.

Ma era ancora tormentato. Quando usciva si guardava sempre attorno: come quando, tempo prima, governava su quel regno misero, arido. Cambiava solo il fatto che, invece delle rosse dune e le tempeste di sabbia, quando guardava fuori vedeva, in sottofondo il bianco deserto, le acque del Nilo, le sponde verdi, le palme, le acace e i giunchi che lo circondavano, contemplandone l’immenso letto. Guardandolo, si sentiva ancora estraniato.

In particolare era turbato da un fatto.

Un servo gli aveva riferito che mentre passeggiava lungo il Nilo aveva visto due “donne”, le cui apparenze corrispondevano perfettamente alla sorella Iside e a sua moglie Nefti, seduti tra i canneti, di fronte a una casa fuori città.

Set aveva un atroce sospetto. Doveva essere un cospiratore. Tormentato da una perenne paranoia, e temendo una congiura da parte delle dee, aveva mandato dunque loro l’ordine di catturarli, portarli alla reggia perché fossero interrogati.

 

Nella casa in riva al fiume dove vivevamo Horus, Iside e Nefti questi avevano appena finito di pranzare.

Horus era seduto in disparte. Iside lo raggiunse e gli prese le mani.

“Non hai praticamente mangiato”, gli disse, “stai bene?”

“Sì, madre. Non preoccuparti.”

“A me puoi dire tutto.”

Horus sospirò. Lei insistette.

“Sono preoccupato per voi.” confessò. “E anche per me” aggiunse infine, come per assicurare alla madre che anche a lui importava di sé stesso (anche se questo non era vero). “E se Set vi scoprisse?”

Nefti, in ascolto anche lei, lo confortò.

 

In quel momento qualcuno bussò violentemente alla porta. Tutti e tre balzarono in piedi.

Horus fece loro cenno di tacere e prese la lancia che si era costruito da sé. Le chiuse nello spazio coperto, uscì nel cortile e corse velocemente sul tetto, dove vi era un pergolato. Non visto, vide chi fossero: le guardie reali.

 

Mentre scendeva in cortile, d’un tratto la porta si sfondò. Cinque guardie entrarono e accorsero verso la porta interna.

Horus la difese con tutte le sue forze, facendo da scudo alla porta. Ma le guardie riuscirono a entrare e a portare fuori le dee.

Horus doveva prendere tempo.

Aprì le sue ali scure e volò sopra il tetto: quindi piombò su una delle guardie: la toccò appena e la decapitò all’istante. Tutte le altre gli balzarono addosso: di queste ne atterrò un’altra. Presto fu braccato da tutte le parti e spinto a terra.

“Scappate! Scappate!” urlò Horus con forza, e gridò quando uno gli premette un piede sull’ala.

Nefti scoppiò in lacrime, ma Iside, dopo aver esitato un momento, la invitò a scappare. Entrambe spalancarono le ali e si librarono in volo: Iside si voltava, piangendo silenziosamente mentre vedeva Horus portato via.

 

Un servo corse nella sala del trono. “Maestà, l’abbiamo trovato. Il cospiratore.”

Horus si contorceva, cercando di liberarsi dalle guardie mentre queste lo portavano di fronte al re. Set ordinò con un cenno di lasciarlo andare.

“Chi sei?”

Silenzio.

“Ho chiesto chi sei!” ripeté con forza.

“Horus.”

“E che ci facevi con la dea Iside, Horus?” lo incalzò.

Horus non rispose ancora. Una guardia gli strinse un braccio dolorosamente.

“Sono suo figlio! Il legittimo erede al trono!” rispose quindi, con voce stridente.

Suo figlio? Set inizialmente non ci credette: era solo un pazzo che voleva il suo regno.

Ma poi vide qualcosa sulla sua mano. Gliela prese violentemente.

Un anello sul suo indice destro, su cui era raffigurato un fiore di loto. Era il sigillo che anche Osiride portava.

Set ci arrivò. Era anche suo figlio. Ma come?

I suoi occhi sembravano aver preso fuoco. Lo prese al collo, ma Horus non aveva paura.

“Tu sei…?”

“Lo sono.”

Non era possibile. Quando Osiride era morto non aveva figli, né Iside ne aspettava.

Sorrise, con quel sorriso acido. Si credeva un suo erede?

 

“Tu non sei figlio di mio fratello.” gli disse aspramente Set.

“Te lo dica questo!” ribatté Horus aggressivamente, alzando la mano. “Sono figlio dei legittimi sovrani di questa terra!”

“Tuo padre era già morto. Non sei che un bastardo.” e poi sorrise. “Non mi sarei mai aspettato che tua madre, il cui amore fu esempio per tutti i mortali(!), potesse scordarsi così facilmente di mio fratello.”

“È mio padre.”

“Ma davvero?”

E un pensiero osceno attraversò la mente del dio. Si mise a ridere. “Ah! Ci starebbe. Ma se sei nato quando Osiride era già morto, mi chiedo in che circostanze Iside possa averti… dato la vita.”

Horus strinse i denti.

Era furibondo per le implicazioni su sua madre. Si sfilò il guanto sinistro e lo gettò ai piedi di Set, con uno stridio.

“Vuoi sfidarmi, Horus?” ghignò Set.

“Preparati a morire.” e gli lanciò un suo guanto.

“Sono pronto”.

Era guerra.

Si ritrovarono in un campo deserto, poco lontano dal Nilo, la luna esattamente sopra di loro. Non radunarono eserciti: la lotta per il regno era tra loro due.

Set, facendo setacciare tutta la città perché nessuno potesse assistere al duello né recare aiuto a Horus, scoprì Iside e Nefti, che si erano nascoste in città dopo essere fuggite.

Ordinò di fare imprigionare le due in una cella nei sotterranei del palazzo: fu inutile, per loro strette in catene che restringevano loro ogni movimento, tentare di scappare.

 

L’usurpatore e il legittimo erede si scontrarono a lungo, così a lungo che persino loro persero il conto dei giorni.

Horus mirava agli occhi, alla testa: Set agli arti.

Il giovane dio era agile, velocissimo, più di qualsiasi volatile. Quando Set provava ad attaccarlo Horus si innalzava in volo sempre più in alto, poi scendeva in picchiata con una forza e velocità tale da decapitare un uomo con una gamba. Così cacciava Horus gli animali selvatici.

Più volte ferì in viso e alle mani Set, e una volta riuscì quasi a cavargli le orbite, ricevendo però un morso al viso.

Set era molto più forte di qualsiasi essere vivente e certamente lo sapeva. Durante una picchiata riuscì a catturare Horus per le ali. Lo colpì ripetutamente, provando a spezzargli le ossa con le sue stesse mani. E nel mentre premeva le sue forti ali a terra.

Horus riusciva a evitare di farsi troppo male con i suoi riflessi velocissimi, rannicchiandosi e coprendosi il viso, ed alla fine si era riuscito a liberare, graffiandogli il viso con le sue unghie e sbattendo le ali violentemente, nonostante questo gli fossero costate diverse piume, che caddero a terra, strappate a mucchi.

 

Iside e Nefti erano in gabbia come due uccelli. Stavano in una cella buia, umida, l’unica illuminazione proveniva dalle torce nei lontani corridoi.

Sentivano i rumori della lotta persino da lì sotto. Iside avrebbe voluto cavarsi i timpani: pregava ogni giorno.

Invocava l’amato Osiride.

Ogni tanto, in momenti di speranza, o disperazione, provava ad aprire la porta, a rompere in qualche modo la gabbia.

Ma non poteva in alcun modo essere sfondata: era protetta da un incantesimo.

Un giorno però arrivò una guardia di fronte alla loro cella, con una scure e un rotolo di papiro.

Toccava a loro? Set le avrebbe uccise con le sue stesse mani: lo aveva già fatto. Oppure le avrebbe gettate in pasto alla dea coccodrillo, Ammit.

Iside e Nefti chinarono il capo. Iside soffrì solo al pensiero di come avrebbe reagito il suo solo, amato figlio alla sua morte.

“Quali sono le vostre ultime parole?” chiese la guardia, mentre ne passava un’altra dietro.

Nefti si asciugò una lacrima. “Dite ad Anubis che mi dispiace… per… per tutto… e che gli voglio bene più che a ogni altra cosa al mondo.”

E Iside: “Nessuna. Portate solo questa”, e si sfilò una spilla d’oro dai capelli, “e portatela ad Horus. Ditegli che quando guarderà ad ovest, mi vedrà vegliare su di lui vicino a suo padre”.

“Non saranno le ultime.” replicò l’altro.

“Come!” dissero le due. “Non le recherai loro?”

Quando la guardia sentì che non c’era nessuno, si tolse il travestimento.

“Thot!”

 

Aveva dovuto utilizzare i suoi poteri per assumere diverse sembianze. Aveva vissuto anche lui fuori dalla reggia quando il tiranno era salito al potere.

Ma non aveva potuto fare niente: il dio della sapienza e delle arti non era per la lotta.

Invece aveva vissuto nascosto, in un’umile casa, nascondendo in segreto oppositori del regime ricercati e curando feriti. Ma si rammaricava di non aver fatto abbastanza.

“Hai fatto quel che potevi.” lo confortò Iside, tenendogli le mani attraverso le sbarre.

“Ma ora come usciamo?!” esclamò Nefti.

Thot non disse niente. Poggiò la mano sulla maniglia e la aprì come fosse sempre stata aperta.

Non fecero in tempo a stupirsi che Thot ingiunse loro di uscire in fretta.

 

Raggiunta a volo la valle in cui combattevano Set e Horus. Nefti svenne quasi, mentre Iside la sorreggeva.

Horus era lacero, sanguinante; le sue braccia sanguinavano, il sangue inondava il mento: le sue ali avevano perso penne, ora a terra, insanguinate. Set era sulla sua preda.

Nonostante distrutto, Horus era rassegnato alla morte.

 

Ma proprio quando il re stava per dargli il colpo di grazia, una luce comparve dietro di lui. Set si girò verso la fonte. Era in un punto lontano tra le canne del Nilo: una sagoma alata, irradiata di una luce divina. Lo attirò, e si mosse verso quella direzione.

Poi si sentì colpire a una spalla. Ululò per il dolore e si voltò: Iside.

Colto dalla furia e dal timore, fece per morderla, ma lei si piombò su di lui e lo colpì.

Set, per il colpo, cadde a terra. Iside gli puntò contro la sua lancia dorata.

Ma Set era sempre stato abile con le parole. Le abbracciò le ginocchia, chiedendo pietà su di sé.

“Nefti! Cara, moglie mia…” disse con tono falso. Nefti si voltò dall’altra parte.

“E tu Iside, sorella, pietà! Tu sei buona, compassionevole… Non uccidere tuo fratello. So cos’ho fatto, e me ne pento. Ti prego, per il Cielo e la Terra che ci generarono. Non uccidermi!”

 

Iside esitò. Si era sempre mostrata compassionevole con tutti: aveva amato e perdonato tutti, ed era nota per questo. Avrebbe perdonato anche lui? Poteva ucciderlo, finirla qui.

Ma non vi riuscì. Era suo fratello.

“Non mi abbasserò al tuo livello. Non sono un’assassina.”

E ritirò la lancia.

 

Horus da terra sentì tutto. Strinse i pugni. Come poteva? Il suo sguardo si alzò violentemente su di lei.

Aveva risparmiato chi aveva ucciso suo padre e lo voleva morto. Strinse i denti: ritirò le sue ali, prese il pugnale e si alzò in piedi, anche se a fatica.

Iside, vedendolo voltato di spalle, lo raggiunse per rassicurarlo.

“Traditrice.” soffiò Horus.

“No, figlio mio, ascolta…”

“Tu mi vuoi morto!”

“Te ne prego! Tuo padre non avrebbe voluto questo.”

“Mio padre non c’è più!!!”

“No!”

“Tu lo insulti!”

“Guardami, Horus!” ingiunse Iside, con autorità. E lo fece.

In uno scatto d’ira Horus alzò il pugnale e si girò di scatto verso di lei.

Si udì un suono metallico e umido insieme, flebile, ma che recise l’aria intorno. Nefti lanciò un urlo straziante.

Un taglio profondo si era formato sulla gola di Iside.

La dea, il suo viso attonito, cadde a terra, con un gorgoglio. Il sangue inondò la terra sotto di lei. Lei tossiva, cercava di prendere aria mentre il sangue le fondeva la gola. Bruciava. Si tenne il collo, cercando di premere la ferita.

Non era troppo forte il dolore: semplicemente stava soffocando.

 

A Horus si fermò il cuore. Si mise le mani tra i capelli, strappandoseli quasi dalla cute. Non perse un momento e corse da lei, cercando di fermare il sangue con la sua veste.

“No… no, no, no… Madre!”

Cosa aveva fatto?

Si voltò da Set, che sogghignava, sadico, i suoi occhi iniettati di sangue. Cosa aveva fatto?

Chiamò aiuto, disperato.

 

Lui e sua zia dovevano portarla il più velocemente possibile a palazzo, sebbene fosse pericoloso.

Non appena giunsero poco prima dell’ingresso Thot corse loro intorno: non c’era stato bisogno di chiamarlo, lui sapeva già tutto.

Anubis comparve a fianco a lui.

Horus raggiunse il fratellastro e cugino, ponendogli le mani sulle spalle. Poiché la sua casa era tra i morti, poche volte lo aveva visto, la notte, quando scendeva a trovare sua madre. Era ben conosciuto, venerato da tutti coloro che ricordavano i familiari defunti.

“Sei qui!”

Anubis fece cenno di sì, solenne. Parlava poco.

Horus si inginocchiò di fronte a lui, come un mortale che invoca un dio.

“Tu, che hai resuscitato mio padre…” lo pregò, con una parola. “Salvala.”

Anubis chinò la testa.

Qualcosa cadde per terra, qualcosa di quasi invisibile. Horus toccò il punto del terreno in cui era caduta. A toccarla la sua mano si gelò quasi.

Era una semplice, invisibile, lacrima.

Horus si alzò e fece per abbracciare suo cugino: questi si ritrasse. Ma quando l’altro si avvicinò con più cautela, gli concesse di tenerlo.

Lasciò sfogare Horus, lo lasciò piangere, tenendogli un solo braccio sulla schiena per reggerlo in piedi.

Poi si separarono quando giunse Thot. Anubis si mise in ascolto.

Thot aveva un’espressione indecifrabile. “È meglio che entriate.”

Horus fece un passo verso di lui. “Cosa succede?!”

Thot semplicemente fece cenno di fare in fretta. Anubis prese la mano di Horus e lo portò dentro, spedito.

“Padre mio, aiutami…” pregò tra sé quest’ultimo.

Ed era sicuro che anche Anubis stesse pregando.

 

Continua…

 

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