Nel pieno della notte, poco prima dell’alba, Iside e Nefti tornarono dove avevano lasciato il corpo, ma non lo trovarono.

Iside ricordò che allo stesso modo non aveva ritrovato Osiride quando era tornata dopo quel viaggio fatale.

Un brivido la percorse.

Lo cercarono brevemente ma quando videro delle briciole di carne spezzettata compresero cosa fosse successo. Set l’aveva scoperto e lo aveva tolto di mezzo: come faceva con tutto ciò che lo infastidiva.

Le due si disperarono, prese dall’orrore.

Ma non c’era tempo da perdere, né per piangere. Dovevano partire all’alba e non dopo.

 

E così partirono alla volta di un altro viaggio, di nuovo alla ricerca di Osiride, ma delle sue parti.

Si portarono dietro anche Anubis.

D’indole selvaggia ed errante come i “genitori” adottivi, da quando Set aveva usurpato il trono aveva vissuto fuori il palazzo, dormendo per le strade, predando uccelli in volo e rubando carcasse.

Quando Nefti era diventata regina, pentita di averlo abbandonato, volendo riscattarsi si era ripresentata a lui come sua madre.

Anubis era diffidente verso di lei. Oltre allo sciacallo e alla zia, non ricordava di avere una “madre”. Seppur con un po’ di difficoltà, però, alla fine lei riuscì a guadagnarsi la sua fiducia.

Ora però Set sarebbe venuto a cercare anche lui, in quanto figlio illegittimo. Non poteva più vivere in modo così sicuro.

 

Iside, Nefti e Anubis viaggiarono per tutto il corso del Nilo per ritrovare i pezzi scomposti di Osiride.

Stabilirono che ovunque avessero trovato il sito dei quattordici pezzi avrebbero fatto erigere un santuario in loro onore: poi avrebbero piazzato all’interno come “reliquie” delle copie in argilla delle sue parti, per far sì che Set non si accorgesse che i pezzi fossero stati trovati.

 

Nel frattempo Iside scoprì di essere incinta.

Era stata quella notte in cui aveva ritrovato suo marito a Biblo, quella notte che come in un miracolo aveva donato a lei la vita.

Iside, nonostante i consigli di Nefti di fermarsi a riposare, non si fermò: cercò tutte le parti attivamente.

Trovarono parti su parti e ordinarono agli uomini di costruire templi ovunque le avessero trovate.

 

Fino a che non riuscirono a trovare l’ultima parte.

Durante il viaggio si erano fermati presso la città di Abydos. Nefti la conosceva bene: era nell’Alto Egitto e non era troppo lontana da Tebe, la capitale.

Giunsero lungo la riva del fiume di fronte alla città. Iside aveva avuto un mancamento e Nefti l’aveva fatta sedere sulla sponda.

Era andata a prendere un po’ d’acqua con un anfora per darle da bere.

Anubis nel mentre cercava tra i canneti, annusando l’aria. D’un tratto si imbatté in qualcosa di strano. Subito gli parve una roccia, quando…

Si accorse che non era una pietra. Chiamò le dee.

Nefti giunse subito. “Che succede? Hai visto qualcosa?” gli chiese, con insistenza.

Anubis le mostrò la testa. Nefti sussultò: “È lui!”

 

Nell’udire ciò Iside balzò in piedi e li raggiunse. Per la fatica quasi cadde a terra.

“Iside! Cosa fai?” la rimproverò Nefti, ansiosa.

Iside ansimò, provando a spostare la sorella. “Devo vederlo. Devo vederlo!”

Anubis gliela porse in mano. Iside si affrettò a pulirla dal limo con il suo mantello e la strinse al seno.

Nefti la abbracciò. “Ti prego, non piangere, Iside…”

Temeva, infatti, che troppa emozione potesse provarla troppo, se non ucciderla. Non poteva sopportare di vedere la sorella che ammirava tanto soffrire.

 

Dopo che fu messo in piedi l’ultimo, definitivo e più importante santuario dedicato a Osiride, il corpo era pronto per essere ricomposto.

Per una giornata Nefti e il figlio ricucirono le parti tutte le parti fino a che il corpo non tornò intero.

Poi però si presentò un nuovo problema: la conservazione. Nessuno di loro voleva che il corpo di Osiride divenisse un putrido pasto degli avvoltoi. Ma come potevano farlo?

Anubis si offrì di mettere in atto una pratica che lo avrebbe preservato dal tempo e dalla corruzione. Una pratica che conosceva solo lui.

“Ne sei sicuro, Anubis?” chiese Iside, perplessa. “Sicuro che funzioni?”

Anubis fissò sua zia. “…Sì”.

Anubis era sempre stato attratto dalla morte. Sebbene gli dei non possano morire di morte naturale, Anubis aveva preso da chi lo aveva allevato.

Gli sciacalli sono opportunisti, i “ladri della morte”. Aspettano che l’animale muoia, o che venga cacciato da un altro animale. E poi, non appena il cacciatore si allontana, rubano la carogna e la finiscono.

Vedeva come i cadaveri e i loro resti dopo la morte si decomponessero fino a sciogliersi nella terra, e poi nulla, perché nulla diventavano. E così gli uomini. Un ciclo infinito di luce e ombra, vita e nulla. Dopo la morte, niente.

Anubis si chiedeva se potesse esserci un modo per preservare i cadaveri dopo la morte. Per accedere al regno dei morti, l’altra vita, bisogna avere un corpo. L’anima non viaggia da sola.

E la sua ricerca si era intensificata dopo che lui stesso aveva assistito alla fine dello zio. Era lui quella figura dagli occhi spalancati.

Aveva provato diversi metodi su animali morti, prima sugli avanzi, poi su corpi interi, fino a che non trovò quello giusto, provandolo su uno sciacallo morto.

E ora era il momento di provarlo, perché il corpo di Osiride rimanesse come doveva essere: immortale.

Il metodo si chiamava mummificazione.

Prima di procedere, Anubis si rivide i suoi appunti.

“Rimuovere il cervello con un uncino attraverso le narici. Incidere un taglio lungo l’addome. Rimuovi gli organi. Riporre intestino, polmoni, stomaco e fegato negli dei di Canopo. Lascia solo il cuore. Lì è l’anima. Immergere nell’acqua. Mettere natron nell’acqua. Aspettare quaranta-settanta giorni”.

Anubis applicò tutti questi passaggi al corpo di Osiride. Alla fine, dopo aver ricucito e pulito il corpo lo sistemò in una vasca contenente acqua salata. Ora non restava che aspettare.

 

Passarono diversi giorni: in uno di questi Iside fu presa dalle doglie. Accorsero delle sacerdotesse. Nefti le prese le mani.

Assistita nel doloroso travaglio, alla fine Iside diede alla luce un figlio, Horus.

 

Per tutti i giorni restanti Iside crebbe il figlio insieme a Nefti nel santuario con i ministri e Anubis, sempre vigile, a guardia. Spesso Iside si appoggiava alla vasca dov’era contenuto il corpo del marito ad allattare il figlio, parlando da sola (agli altri pareva così). Ma qualcuno rispondeva…

Il tempo passò in fretta ed era giunto il momento per il secondo passaggio. All’alba Anubis ordinò che fossero portati olii, unguenti e le spezie più pregiate e vi unse la salma. E infine la ricoprì con bende di lino per preservarlo dall’umidità e dai vermi.

Aveva funzionato, pensò, guardando la “mummia”.

 

Quella notte doveva tenersi la veglia notturna. Quanto dovette resistere Iside per non baciarlo…

Le dolcezze, i sospiri, le parole dolci… A questo pensava mentre guardava Horus che giocava nel giardino del santuario.

Ma ora stava per fare buio. Il sole calava verso Ovest.

Iside chiamò Horus, che le corse in braccio, e lo preparò per andare a dormire.

Ma quando la luna era alta in cielo e tutti dormivano si sentì un rumore.

Un profumo divino avvolse l’aria.

Anubis, che aveva il sonno leggero, si alzò immediatamente e svegliò anche la madre e la zia. Corsero subito nella stanza della salma, e lo videro.

Osiride era avvolto nella veste bianca con cui era stato seppellito, la corona regale in testa: il suo era ancora quel bel viso che Iside amava, ma la sua pelle dorata era incrostata in più punti, di un colore che sembrava quello dei giunchi.

Le dee subito fecero un passo indietro.

Anubis, cautamente, si avvicinò.

E sorrise, trionfante.

“Sorgi e vivi! Ecco la tua nuova sembianza!”

Iside si avvicinò a lui, incredula. I suoi occhi però erano ancora loro: benevoli, dolci. E si posavano sulle tre persone a lui più care.

Iside con un gemito lo circondò con le braccia, e poi si unì anche Nefti. Non volevano più lasciarlo andare.

Iside ordinò alle sacerdotesse attonite di far portare Horus.

Lo porsero in braccio al padre. Il bambino non si spaventò alla sua vista. Dopo aver osservato suo figlio, il viso di Osiride si illuminò d’orgoglio. Lo baciò sulla fronte e, dopo qualche attimo lo sollevò.

Chiuse gli occhi, e pregò a voce bassa in una solenne preghiera.

“Amon-Ra, luce divina, fai mio figlio splendore del Regno, forte e possente sovrano: fai che un giorno dicano di lui: ‘È migliore del padre”. Riunisca i regni facendo di due uno, porti orgoglio alla madre e al popolo di Menfi”.

 

Lo guardò e lo porse in braccio a Iside, che lo strinse al seno, commossa. Nefti piangeva, e Anubis era appoggiato al muro, lo sguardo volto dall’altra parte.

Una luce illuminò i loro visi: le luci dell’alba.

Osiride doveva andare, disse. Anubis per primo sapeva il perché. Osiride era in vita ma non nel mondo dei vivi, il che è diverso.

Il regno dei morti è a Ovest, dove il sole tramonta: e a sua volta quando sorge l’alba, a Est, l’aldilà tramonta.

Iside non lo avrebbe mai lasciato andare. Ma strinse Horus ancora di più al petto e baciò il marito. Le sue labbra erano così fredde.

“Tornerai?”

“Tornerò”.

Agli dei è consentito l’accesso al regno dei morti durante il giorno, quando l’Ovest è nascosto. Dal calare del sole al sorgere dell’Alba, invece, sono i morti a poter accedere al mondo terreno. Iside si asciugò una lacrima, speranzosa.

 

Prima di svanire Osiride invitò Anubis con un cenno.

Dopo qualche attimo di incertezza il giovane dio si avvicinò. Intorno a sé si fece buio.

Si ritrovava in una sala ampissima, illuminata, dalle pareti di luce: in fondo alla stanza vi era una tenda di stoffe porporine con ornamenti dorati e blu zaffiro, e sotto questo il trono. Era lo stesso trono su cui sedeva quando era re delle terre del Nilo.

Dietro il trono due colonne in pietra calcarea, bianchissima: e di fronte al trono un fiore di loto.

Osiride, guardando benevolmente Anubis, che si guardava con sguardo inquieto intorno, lo invitò vicino a sé.

Come segno di ringraziamento per averlo riportato in vita gli consegnò un oggetto, il più prezioso per un dio: l’ankh. La chiave della Vita, terrena e ultraterrena.

Anubis, dopo averla ricevuta tra le mani, si inginocchiò.

Poi si alzò, l’ankh in mano: voltò i suoi occhi lupini intorno alla stanza. In mezzo vi era una bilancia. Comprese il suo compito.

Quella era la sala dove veniva decisa la sorte degli uomini, verso la vita eterna, oppure la morte. L’ankh definiva la funzione di un Dio. E ora lui era il Guardiano dei Morti.

 

Nel tempio era sorto il giorno.

Iside era seduta sulla sua stuoia, con Horus era sdraiato in braccio a lei, cullato dalle ali della mamma. Il bambino toccò con curiosità una piuma. Gli fece il solletico con la punta di un’ala. Il suo cuore si riempì di gioia e rimpianto quando vide il piccolo dimenarsi e ridacchiare.

Vedeva la forza, il vigore nei suoi occhi.

Sì: avrebbe reso orgoglioso suo padre.

“Sì, mio orgoglio, luce divina: tu regnerai, riporterai la pace.”

 

Continua…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *