Il cambiamento climatico, considerato fino a pochi mesi fa come l’antinomia irrisolvibile del nostro sistema economico e produttivo, iceberg con cui l’impatto sembrava inevitabile, sembra essere diventato da qualche mese una delle priorità di gran parte dei paesi occidentali. Qualcosa si muove: molte nazioni fanno i primi passi di fronte all’avvicinarsi alla data “X” per estinguere le proprie emissioni di CO2, fissata al 2050. Ma non sono solo buone notizie: Il presidente cinese Xi Jinping non si è presentato al COP26 di Glasgow (ha invece inviato un messaggio scritto), e il premier indiano Narendra Modi ha gettato la palla in tribuna rinviando l’abbandono di fonti energetiche fossili al 2070. In molti paesi infatti, oltre agli interessi economici e di sviluppo, le dinamiche geopolitiche e di potenza hanno semplicemente annullato il dibattito in corso in merito alla transizione energetica. È il caso delle già citate India e Cina, della Russia, e (in parte) degli Stati Uniti: i principali attori della storia attuale e principali responsabili delle emissioni di gas serra.
La Russia, secondo produttore di gas e petrolio del mondo, anche solo per questo incipit, si delinea come un caso particolare: “terzo attore” del conflitto tra USA e Cina e nemico sbiadito (per usare un eufemismo) dell’occidente, si ritrova a dover cambiare radicalmente il proprio profilo economico e sociale per continuare ad esistere.
Ma cosa sta succedendo esattamente?
Per la Federazione Russa la conversione energetica si prospetta a dir poco travagliata. Il Cremlino ha approvato un piano relativo ai gas serra il 29 ottobre 2021, da cui scaturisce che la neutralità carbonica entro il 2050 appare un obiettivo irraggiungibile per l’economia russa. La data X viene posticipata di dieci anni, mentre viene invece stabilita la riduzione del 80% di emissioni rispetto al 1990 e del 60% rispetto al 2019, entro il 2050. Per la Russia l’export di petrolio e gas naturale rappresenta il 53% delle esportazioni totali ( senza contare i posti di lavoro che porta con sé ), e i dati (2019) dell’export parlano chiaro: petrolio e gas per 220 miliardi di dollari, acciaio e prodotti della metallurgia per soli 18 miliardi, armamenti per 13 miliardi. Insomma, c’è da cambiare un intero modello produttivo ed economico oltre che da modernizzare e indirizzare parte della produzione energetica verso rinnovabili, idrogeno e nucleare. Per non restare indietro, la Russia non può ignorare la mobilitazione verde dell’occidente. Il Cremlino, infatti, mostra preoccupazione davanti ad una possibile perdita del primato di fornitore energetico dell’UE, la quale progetta di introdurre una tassa per le importazioni da Stati che non rispettano standard e misure sulle emissioni di produzione. Per la Russia questo sarebbe uno scenario a dir poco apocalittico, dato che l’Europa assorbe il 45% dell’export russo tra energia, prodotti chimici, e metalli.
Molti, a dir del vero, non ritengono possibile questa ristrutturazione in tempi così brevi, soprattutto perché i grandi gruppi energetici ( Gazprom, Rosneft, Lukoil ) sono enormi centri di potere e di interessi. Questi hanno un ruolo centrale nella politica russa, e sono difficili da toccare soprattutto in una fase politica così delicata. In effetti, è arduo pensare che la Federazione rinunci, almeno nel medio termine, alla sua leva principale in politica estera ( le risorse naturali ).
L’UE infatti dipende quasi per il 40% dagli oleodotti siberiani e, nonostante Bruxelles faccia la voce grossa per la crisi ucraina e bielorussa, il manico del coltello è sempre dalla parte di chi possiede la risorsa, come abbiamo capito in questi mesi con i rincari delle bollette.
Date queste premesse si può davvero affermare che la (necessaria) svolta green occidentale e la pax europea dipendono dalle mosse che farà Mosca nel medio periodo e che una svolta green, se sarà mai, in Russia coinciderà con una svolta politica radicale, dovendosi emancipare dai “magnati del petrolio”, che determinano la politica russa dalla caduta dell’Unione Sovietica.
Non tutto è perduto.
Nonostante vent’anni fa nel Cremlino tra battute e frasi goliardiche si dicesse che in un clima come quello russo il riscaldamento globale potrebbe solo che giovare ( permettendo di aprire nuove rotte nell’artico, aumentando i raccolti di grano ecc. ), adesso i toni sono cambiati davanti ai nuovi dati scientifici: le trivellazioni per gas e petrolio sono sempre più difficili a causa dello scioglimento del permafrost ( che ricopre il 65% del territorio nazionale ), causa di allagamenti nelle aree coltivabili e grande rischio anche per le basi militari russe nell’artico, che necessitano di manutenzioni costosissime. Si stima che i danni in Russia a causa del riscaldamento climatico potrebbero ammontare a circa 60 miliardi di dollari entro il 2050. Putin ora sul tema clima usa toni più cauti. Il tempo delle chiacchiere è finito. Adesso la Federazione si sta muovendo nel diventare leader nella produzione di idrogeno e nella tutela delle aree boschive.
Anche questo tema fondamentale e di interesse planetario, possedendo la Russia 800 milioni di ettari di foreste ( quasi 27 volte l’Italia ). Il Cremlino ha infatti colto l’importanza di questo polmone verde come risorsa di assorbimento di emissioni e come ecosistema da difendere. Putin ha insistito proprio su questo al Cop26 e ha firmato insieme a molti altri paesi l’impegno a fermare la deforestazione entro il 2030.