Ed ecco che puntuale come un orologio, anche quest’anno, in prossimità del 25 aprile, si apre una delle polemiche più accese che coinvolgono il nostro paese. Con grande rigore tornano a galla i miti degli “italiani brava gente”, dei “massacri dimenticati”, di “ma allora le Foibe?” e quello più in voga di tutti : “quale festa nazionale in una celebrazione che è stata fin dall’inizio divisiva?”.

Non mi è mai piaciuta la parola “divisivo” perché è una di quelle parole estremamente sottili, che sembrano voler dire una cosa ma in realtà ne dicono un’altra. E’ una di quelle parole che a un certo punto finisce immancabilmente per risuonare come uno slogan e che, invece di sostenere un ragionamento, lo ingabbiano. Si tratta di antiparole, servono a non dialogare e l’assenza di dialogo mi spaventa tremendamente.
Tuttavia se questo dibattito anima ancora così tanto gli italiani significa che alcune ferite non si sono rimarginate del tutto e che l’identità nazionale deve ancora solidificarsi su valori comuni. Questo perché il 25 aprile ci mette regolarmente di fronte a quegli spettri che continuano ad aggirarsi per il paese ma che non vorremmo mai incontrare di nuovo; ci ricorda che, come Stato, ci siamo seduti trionfi sul lato sbagliato della storia e che abbiamo commesso consapevolmente azioni che ad oggi ci vantiamo di considerare irripetibili.
Si innesca così quel processo autoassolutorio di falsificazione della memoria collettiva che si sovrappone ai fatti storici, manipolandoli o, ancora più spesso, allontanandoli, ma chi ha bisogno di assolversi o assolvere riconosce una colpa da congedare perché forse ancora in parte viva e presente.
Questa tendenza si esplica banalmente nella ricorrente narrazione secondo cui la resistenza abbia rappresentato soltanto una contrapposizione tra estrema destra ed estrema sinistra. Nulla di più falso. Non si trattava di due opinioni che si scontravano l’un l’altra ma piuttosto della libertà di opinione che si schierava contro il pensiero unico. Tra le file dei militanti allo sbando dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, c’era chiunque a fianco alla Brigate Garibaldi, si contavano socialisti, liberali, cattolici e apartitici.
Questa narrazione semplificata è utile solo a distogliere l’attenzione dal ruolo che le forze armate ebbero nel regime e per tramandare un’idea di dissenso come qualcosa che riguarda la radicalità politica, decisamente  comodo per il conservatorismo delle classi dominanti.

Certo le nostre classi politiche non hanno aiutato in questo processo di identificazione collettiva: da anni ormai feste come quella della Liberazione sembrano i bersagli ideali per velate – nemmeno troppo – operazioni di politicizzazione dei vari partiti.
Il Presidente Giorgia Meloni dice che non spetta a lei chiedere ai ministri di festeggiare il 25 aprile e ha perfettamente ragione, non si dovrebbero invitare le massime cariche dello Stato a celebrare le colonne su cui la nostra Costituzione si regge in piedi.
Non dovrebbe essere necessario ricordare che sì, certo, gli ideali sono opinabili ma che, al contrario, le religioni civili sono inviolabili. Perché l’antifascismo è questo, è pura religione civile e, per quanto spesso accada, la politica non dovrebbe mai immischiarsi con la religione. Le campagne elettorali si sono ormai concluse, quando troveremo quindi la serietà per conservare e proteggere le radici della nostra democrazia?
È impensabile esaurire ancora una volta la questione come fece anni fa il giornalista Pierluigi Battista sul Corriere, parlando del “tic di sinistra del nuovo fascismo”, di falsi allarmismi, di rievocazioni storiche e ideali intramontabili.
Nell’Aprile del 1995 Umberto Eco parlò del fascismo eterno, descrivendo tutte quelle peculiarità che lo rendevano capace di resistere e adattarsi ai mutamenti sociali adeguandosi alle nuove esigenze. Il fascismo secondo Eco è un complesso ideologico soggetto a continue possibili ricontestualizzazioni, sa fondersi e riformarsi a seconda delle circostanze.
Il fascismo ha cambiato aspetto così tante volte che ad oggi sarebbe improbabile e utopistico rivederlo con la camicia nera addosso o il manganello e l’olio di ricino in mano. È più facile osservarlo mentre tenta di nascondersi sotto le vesti di “conciliatore”, proponendo insistentemente una riappacificazione finalizzata, magari anche in modo inconscio, a spingere lentamente la memoria dei cittadini nell’oblio.
Insomma, ripetiamolo un’ultima volta: no, il 25 aprile non è divisivo. Se proprio ci piace usare questo termine, possiamo al massimo spingerci ad affermare che l’etica è divisiva. È divisiva perché ci aiuta a individuare le cose inaccettabili dalle altre e quindi forse è un bene che lo sia.

 

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