“If you’re smart or rich or lucky

Maybe you’ll beat the laws of man

But the inner laws of spirit

And the outer laws of nature

No man can

No, no man can…”

The Wolf That Lives in Lindsey,

Joni Mitchell

 

Con questa citazione inizia “Il mio anno di riposo e oblio” di Ottessa Moshfegh, un libro che mi ha trasportata in un universo surreale, lontano dalla mia realtà, ma al quale mi sono sentita inaspettatamente vicina.

Tutto inizia in una Manhattan all’alba del nuovo millennio in un appartamento dell’Upper East Side con una giovane donna, apparentemente privilegiata: bella, ricca e colta, ma terribilmente sola. La ragazza conduce una vita frenetica che non riesce più apprezzare come il suo lavoro da gallerista, che ritiene inutile e straziante. La protagonista senza nome non riesce più a sentire le cose, ad apprezzarle e a coglierne la bellezza, non trova un senso nella sua esistenza e percepisce un vuoto dentro di se. Solitamente questa tipologia di dolore si combatte ricercando la motivazione perduta, ma lei decide di affidarsi all’ignoto, all’oblio. Così intraprende un percorso di “ibernazione” narcotica aiutata dalla sua psicologa, una donna alquanto esuberante e particolare.

Questo suo sonno durerà per un anno intero accompagnato da film pilastro della cultura pop americana e caffè con la panna. La protagonista è periodicamente disturbata da Reva, che ostina a chiamare “migliore amica”, ma che ormai considera soltanto una triste rappresentazione della superficialità. Le visite indesiderate fanno riaffiorare i ricordi, come quello di Trevor, che la ragazza definisce “fidanzato intermittente” al quale si sente morbosamente legata. La giovane donna, nel corso del suo isolamento, combatte con la decisione di lasciare tutto e tutti indietro, pronta per un nuovo inizio al suo risveglio, ma continua, nei periodi di incoscienza provocati dai farmaci, a sentire la necessità di avere un ricordo della sua vita passata per non dimenticare.

Durante il riposo la protagonista viene tormentata dai fantasmi del passato: le immagini sfocate dei suoi genitori che ritiene di non aver mai conosciuto realmente. Suo padre, professore universitario, era un uomo riservato e chiuso al contrario della madre, donna irruenta e afflitta da alcolismo e dipendenza da psicofarmaci. La ragazza vive nei rari momenti nei quali quegli sconosciuti sono sembrati la sua famiglia: delle mani smaltate che l’accarezzano in una nuvola ti tabacco e odore forte di vodka, le vetrate colorate nelle estati calde, le ultime parole del padre e qualche lacrima. Grazie a queste poche memorie decide di non vendere la casa alla morte dei due come lettera d’amore per quello che non è stato.

A Gennaio, un anno dopo l’inizio di quell’esperienza, la giovane donna si sveglia dal suo sonno profondo, non più affranta dalla sua esistenza, ma pronta e decisa a percepire di nuovo quello che ha attorno, come una rinascita.

 “Eccola un essere umano che si tuffa nell’ignoto, ed è perfettamente sveglia.”

Questa è l’ultima frase del libro che si riferisce alla caduta di una ragazza dalle Twin Towers l’11 settembre 2001. Potrebbe essere Reva, morta nell’incidente. Con queste parole la protagonista ha riconosciuto l’esistenza di un sonno più grande: la morte. A parere mio, infine, la ragazza si culla nell’illusione, per alleviare il suo dolore, che la sua amica un giorno avrà un risveglio da quell’oblio consapevole come lei ha avuto dal sonno della ragione.

 

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *