Il termine hijab deriva dal verbo hjb, che in arabo significa coprire, celare. Il Corano, testo sacro della religione islamica, invita la donna ad indossare il velo per preservare la sua bellezza e proteggerla dagli sguardi indiscreti.
Da sempre, però, l’hijab è stato strumentalizzato per scopi politici, per simboleggiare il controllo sulla popolazione, allontanando da esso il suo significato originario, ovvero devozione e rispetto per il proprio dio.
Nel 1979 molte donne protestarono in hijab o chador durante la rivoluzione islamica, per rivendicare la tradizionalità del paese e fronteggiare la “rivoluzione bianca” che, invece, promuoveva la modernizzazione e occidentalizzazione dell’Iran e poneva il divieto di indossare il velo in pubblico. Queste manifestazioni trasformarono la monarchia in una repubblica islamica sciita, guidata da Khomeini, noto leader religioso. Il nuovo governo si rivelò una rigida teocrazia che ingiungeva l’obbligo di portare l’hijab, così l’8 marzo 1979 molte Iraniane si ribellarono in una grande marcia che rimase celebre. Tuttavia, dal 1983, in Iran, non indossare il velo è un reato ufficiale e infrangere questa legge comporta 74 frustate e arresto. Al giorno d’oggi, inoltre, le donne Iraniane non hanno il diritto di cantare, ballare, viaggiare da sole, truccarsi o vestirsi a loro piacimento, non possono recarsi negli stadi (se non per partite nazionali), sono considerate penalmente responsabili dall’inizio della pubertà e l’adulterio, da parte della consorte, è punibile con l’esecuzione.
Il 16 settembre 2022, Mahsa Amini, studentessa curda ventiduenne, è deceduta presso una stazione di polizia iraniana, dopo tre giorni di coma, in circostanze sospette. L’opinione pubblica pensa che la morte della ragazza sia stata causata da violenze fisiche, ma gli agenti negano di averla picchiata. La giovane donna, infatti, era stata incarcerata pochi giorni prima perché non indossava correttamente l’hijab, con l’accusa di violazione della “promozione della virtù”.
Dopo questo episodio numerose proteste sono dilagate, partendo da Saqqez, città natale di Mahsa, per arrivare nella capitale iraniana Teheran e in tutta Europa. Le manifestazioni, il cui aumento probabilmente è influenzato dall’inflazione e dalle pessime condizioni di vita del paese, si oppongono all’obbligo del velo e favoriscono le libertà personali, i diritti civili e la caduta del regime.
Anche internet ha avuto un ruolo importante nella diffusione di immagini e video, con slogan “donna, vita e libertà” e #mahsaamini, dove numerosi protestanti di sesso femminile tolgono l’hijab dal capo e lo bruciano o si tagliano i capelli in segno di dissenso e disapprovazione. Il governo iraniano, però, ha ripetutamente bloccato l’accesso ai social network come whatsapp e instagram, violando il diritto alla libertà di espressione e all’accesso alle informazioni, contenuti nel trattato ONU sui diritti politici e civili.
Queste ribellioni, inoltre, si possono considerare trasversali, siccome donne, uomini e giovani combattono uno a fianco all’altro, e allentando le tensioni sociali ci dimostrano che la battaglia per la libertà va oltre il genere ed è asessuata.
Personalmente credo che la donna dovrebbe avere la libertà di scegliere con cognizione se indossare il velo o meno, ma per compiere questa decisione sono necessari strumenti che si acquisiscono accedendo all’informazione e all’istruzione. In un mondo utopico, inoltre, l’hijab simboleggerebbe positivamente la cultura islamica rispecchiandone i valori tradizionali (il Corano infatti ritiene la donna ragione della continuità della vita ed essere bellissimo), ma a causa di integralismi e dell’imposizione del velo per scopi politici, questo non può ancora avvenire.
Al contempo, però, ritenere l’hijab esclusivamente una forma di oppressione nei confronti delle donne non è corretto. Esso è certamente, in numerosi casi, la concretizzazione di ingiustizie sociali verso il sesso femminile, ma non riflettiamo mai, invece, su quelle presenti in occidente. Modelli di bellezza irraggiungibili e non realistici si possono considerare pressioni altrettanto radicate in Europa. Siamo veramente padrone del nostro corpo? Credo che l’atto di esporre il proprio fisico sia simbolo di emancipazione femminile soprattutto quando non si è influenzate da standard inarrivabili o dalla ricerca di attenzione maschile, dalla quale la società ci rende dipendenti.
In conclusione è inutile invocare la parità dei sessi e ritenere l’hijab simbolo di subordinazione della donna rispetto all’uomo senza investigare sui vari significati che può assumere, dal momento che il velo islamico simboleggia anche la presa di coscienza femminile in base al valore che le donne stesse gli possono attribuire.