“– Quanto vale per te? Qual è il tuo prezzo?
– Per annullare la rivoluzione?
– Sì, qual è il tuo prezzo?
– La mia vita.”
Abbie Hoffman
Chicago 28 agosto 1968: mentre in Vietnam vengono mandati al macello migliaia di giovani americani, un numero impressionante di manifestanti appartenenti a svariati gruppi pacifisti, quali YIP e il movimento studentesco, simboli della rivoluzione e di opposizione alla guerra, si riuniscono nei parchi della città per protestare di fronte alla Convention del Partito Democratico in corso per la nomina del candidato che sfiderà Nixon alle elezioni presidenziali di novembre.
Per comprendere realmente quanto accaduto ricordiamo gli avvenimenti di quell’anno straordinario e di grande fallimento per la Nazione: Johnson aveva rinunciato al secondo mandato, il dottor King era stato assassinato e poco dopo fu il turno di Kennedy. Il paese era completamente in arresto, e in quella occasione otto esponenti della controcultura giovanile di sinistra vennero scelti come capro espiatorio, accusati di associazione a delinquere e di cospirazione per aver organizzato le proteste, istigando i manifestanti allo scontro contro le forze dell’ordine. Il procuratore generale Ramsey Clark, consapevole che la violenza era stata suscitata principalmente in seguito alle azioni della polizia, incapace di frenare le proteste, archiviò il caso che fu riaperto solo dopo la vittoria di Nixon, facendo sorgere non pochi dubbi sulla presunta natura di processo farsa.
Tra di loro venne incredibilmente imputato anche Bobby Seale, cofondatore del movimento delle Pantere Nere che, a Chicago, in quel giorno di agosto, aveva passato appena quattro ore. Trascorreranno ottantatré giorni e una sequenza di umiliazioni pubbliche infinite prima che il giudice del processo, Julius Hoffmann, faccia cadere le accuse su Seale dichiarandolo un errore giudiziario, ma condannandolo successivamente a cinque anni di carcere per oltraggio alla corte e costringendo inevitabilmente il mondo a osservare ancora una volta quanto le diseguaglianze razziali fossero una realtà tutt’altro che superata nel Paese.
Il 18 febbraio 1970, i sette imputati restanti furono prosciolti dalle accuse di cospirazione, ma cinque di loro, Abbie Hoffman, Jerry Rubin, David Dellinger, Tom Hayden e Rennie Davis furono ritenuti colpevoli di aver portato certe idee oltre il confine con la finalità di incitamento alle rivolte e furono condannati a cinque anni di carcere. Due anni dopo la Corte d’Appello del Settimo Circuito degli Stati Uniti annullò definitivamente la sentenza dei Chicago Seven, chiarendo come il comportamento del giudice Hoffman fosse evidentemente pregiudizievole e legato a pretesti culturali e razziali.
Nella memoria collettiva, ancora oggi è opinione comune che fu proprio la notte del 28 agosto, fatta di pestaggi indiscriminati e bastonate ai civili da parte degli agenti, a svelare come la giustizia potesse diventare uno strumento politico e gli imputati martiri selezionati con precisione per reprimere e intimidire un intero movimento rivoluzionario. Apparve dolorosamente evidente quanto fosse labile il confine che separa il diritto alla parola dall’incriminazione per la violazione dei codici penali, la tutela dell’ordine pubblico dalla brutalità ingiustificata, la protesta dalla rabbia sociale. I cittadini persero completamente fiducia nel Paese, nelle sue istituzioni e nella politica, ma allo stesso tempo quello sconforto non frenò le lotte della sinistra sociale per i diritti civili e contro gli orrori del Vietnam.
Nell’ottobre dell’anno successivo al processo, durante le Olimpiadi di Città del Messico i due atleti Tommie Smith e John Carlos alzarono sul podio dei 200 metri il pugno chiuso nel guanto nero delle Pantere nere, gesto che ispirò il musicista inglese Graham Nash nella composizione di Chicago/ We Can Change the World, uno dei brani simbolo di quella grandiosa stagione di rivolte e ideali.