Che il covid abbia messo in ginocchio i settori più disparati, ahimè, è ben noto a tutti… eppure troppo spesso molte categorie vengono lasciate da parte, costrette a nascondersi in un’ombra che le oscura sia dalle istituzioni sia dalla considerazione comune. Questo è il caso dell’immenso mondo del teatro, di chi sta sul palcoscenico e dietro le quinte. Davide Dal Seno, savonese, classe 1985, è un performer di musical e attore che da anni lavora nel mondo dello spettacolo sia in Italia sia all’estero, e proprio tramite le sue parole ho tentato di fornire una visione diversa del teatro e dell’arte, di quanto ha sofferto e di quanto cambierà.

Non posso che iniziare con una domanda standard: cosa significa per te salire sul palco?

«Beh, salire sul palcoscenico è il mio lavoro, il teatro è il mio ufficio e dopo un anno e tre mesi che non si va in scena avrei davvero bisogno di tornarci! Se consideriamo invece l’aspetto emotivo, esibirmi vuol dire lavorare con il mio corpo, approfondire la mia coscienza e mettere in scena le ore e ore di prove con un alto livello di professionalità, cercando di non deludere 1500 persone paganti: ogni volta che si apre il sipario provo un’emozione fortissima che è sempre presente ma muta ad ogni esibizione, è difficile da verbalizzare. Certo posso affermare che non sono mai rimasto lontano dal palcoscenico per così tanto tempo, ed è sicuramente deleterio in quanto un lavoro come il mio va tenuto costantemente vivo con le prove».

È ormai passato più di un anno da quando i teatri sono stati chiusi… come ha potuto sopravvivere l’immenso mondo che sta sul palcoscenico e dietro alle quinte?

«Ho avuto veramente paura. Mi sono messo a fare qualunque cosa: quest’estate ho distribuito patatine in giro per l’Italia, un mese e mezzo fa ho lavorato come cameriere in un ristorante, mentre un mio collega, protagonista di diversi musical, sta lavorando ora come magazziniere. Essendo anche un attore ho recitato in due episodi di una serie tv e ho prestato il mio volto per alcune pubblicità. Anche in realtà economiche prospere come Milano il nostro curriculum gravita interamente intorno al palcoscenico, di conseguenza ci troviamo a poter svolgere professioni estremamente umili in settori che con la crisi corrente sono obbligati a licenziare anche i propri lavoratori».

Prima di iniziare l’intervista mi hai confermato che secondo te gli spettacoli online non funzionano. Perché? 

«Poiché viene a mancare la vera essenza del teatro: certo si può seguire il copione eseguendo la performance “a macchinetta”, guardando dritto in camera, ma viene a mancare l’interazione con il pubblico, la sua emozione, e le poltrone vuote danneggiano in un certo qual modo anche la performance, soprattutto nei musical quando, durante i grandi numeri musicali, sentire il pubblico in visibilio dà una carica pazzesca a chi sta sul palco… un professionista può poi sicuramente rendere la performance egualmente strabiliante, ma il teatro è nato per narrare una storia guardando gli attori negli occhi, non dietro a uno schermo; è come se dall’oggi al domani si stabilisse che il David di Michelangelo fosse visibile solo attraverso la televisione, non è affatto la stessa cosa».

Per te, quando tutto questo sarà finito, il mondo del teatro si troverà cambiato? Se sì, in meglio o in peggio?

«Da professionista posso affermare che il pubblico avrà una voglia pazzesca di tornare a teatro, e su questo non ho dubbi. Tuttavia temo che per noi attori il teatro cambierà in peggio: tantissimi lavoratori sono rimasti fermi per un anno, quando dunque ci saranno nuovamente delle audizioni per nuovi spettacoli i produttori prediligeranno, tra l’enorme quantità di performer, coloro che sono disposti ad accettare una retribuzione minore pur di lavorare: questo vuol dire che in un settore già in crisi noi artisti saremo obbligati a fornire le stesse performance a molto meno, perché quando ti manca il pane accetti qualunque cosa ti sia proposta, a qualunque condizione».

Se potessi prendere una decisione che cambi completamente il mondo dell’arte e del teatro in Italia, quale sarebbe?

«Questa domanda è tosta… sicuramente farei di tutto per tutelare maggiormente l’artista, dalla sua retribuzione (anche nei periodi in cui non sono organizzate grandi produzioni) alla concezione del suo ruolo: a differenza di molti paesi europei, in Italia si tende a credere che quello dell’artista sia un hobby, non una professione. Spesso mi sono sentito dire: «Tanto tu balli, ti diverti!», ma la verità è che la gente ancora non si rende conto di quanto siano sfiancanti mesi e mesi di prove prima e due ore di esibizione sette giorni su sette dopo, in cui bisogna mostrarsi entusiasti e sorridenti recitando, cantando e ballando con passione anche se nella nostra intimità stiamo vivendo un momento difficile».

Per te i giovani si stanno via via allontanando dal mondo del teatro?

«Sì, tantissimo. Oggigiorno è tutto l’“antiteatro”: il teatro è contatto umano, è mettersi in gioco per creare personaggi, una relazione tra attori e pubblico, non è una storia di Instagram da scorrere spasmodicamente, ma è uno stare seduti e godersi una storia per un paio d’ore. Per me il teatro è sempre stato un gioco, oggi chi tra i ragazzi molla il cellulare per giocare con gli altri? Adesso è tutto talmente veloce e poco pensato… Infine, molti ragazzi non percepiscono i valori del teatro e dell’arte in generale: se un adolescente ha 20€ in tasca probabilmente non andrà a vedere un’ora e mezza di spettacolo, ma preferirà imbucarsi in un all you can eat.»

 

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