La guerra è paura.

Ormai lo abbiamo imparato: dopo due anni di lotta contro quello che è spesso stato definito un “nemico invisibile”, il terrore torna a pugnalarci dove ci ha già feriti una volta. L’informazione – giornali e media – si è trasformata nuovamente in un corpo monotematico di notizie aberranti che non smette di ronzarci nelle orecchie, e ogni drammatica evoluzione delle vicende rimbalza nel nostro cervello, febbrile, infida, desiderosa di provocare ossessione e psicosi. E panico. Soprattutto tra le persone che la guerra l’hanno sempre e solo sentita nominare e che hanno avuto la fortuna di non averci mai fatto i conti da vicino. D’altronde, si riduce tutto a un banale “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”: finché non ti coinvolge, non è davvero importante.

La paura si fa carne nei civili che tentano di scappare, in quanti sono costretti a imbracciare le armi, in chi si trova all’estero e ha parenti o amici sotto il cielo infuocato dai bombardamenti, e in noi che osserviamo impotenti, con il sibilo del terrore che inizia a farsi spazio tra i pensieri. I più giovani sembrano percepire il segnale in modo chiaro, distinto, forse perché arriva per la prima volta; ma può rimanere nascosto tra i tanti suoni che affollano la mente di chi ha visto situazioni simili in passato. Tuttavia, non per questo la guerra fa meno rabbia.

Perché sì, la guerra è anche rabbia. È l’indignazione di coloro che, pur di manifestare pubblicamente e dichiararsi contro le atrocità che sono state e saranno commesse, preferiscono esser condotti via da concittadini, per farsi arrestare. In fin dei conti, la guerra non è mai giusta e nella sua cecità non colpisce mai chi la brama, ma chi la subisce; anche se, forse, è opportuno ricordarsi che nelle guerre non ci sono né vincitori né vinti. Rimangono solo sconfitti, e morti.

La guerra è soprattutto morte. E non si parla soltanto di corpi privati di vita senza alcuna motivazione, ma di un cancro che crea metastasi a più livelli (nella politica, nell’economia, nella società) e che spazza la dignità dell’uomo, riducendola a polvere, cenere su cui nulla può essere ricostruito.

La guerra è scontata. Tutti sanno come va a finire, tutti sanno cosa comporta. Queste stesse parole sono banali, ovvie, eppure non bastano. Non sono sufficienti. Non sono sufficienti millenni di storia e opere di sofferte testimonianze, convegni, giornate dedicate alla memoria di atroci conflitti: tutto è stato messo da parte per scrivere nuove, ennesime pagine insanguinate.

La guerra è fame, sete di potere, di controllo, di dominio sulla propria paura che viene imposto tramite la paura di altri, in un ritorno alla dimensione più brutale dell’indole umana. “Fight or flight”, rispondi al timore aggredendo e incutendo timore a tua volta. Questo è ciò che siamo abituati a fare, questo è quello che l’istinto ci invita a fare. Ma la guerra non è solo frutto dell’impulsività: deriva da scelte “ben ponderate”. La guerra è una scelta e come tale implica delle conseguenze.

La guerra è la speranza che finisca. La guerra è negli occhi delle masse che si radunano in piazza, cantando, piangendo e pregando, sventolando bandiere di libertà ormai persa.

La guerra è un edificio sfondato e il volto devastato dall’orrore.

La guerra è dentro e fuori di noi.

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