INTERVISTA A PIER LUIGI FERRO

Alberto Venturino

Pier Luigi Ferro, varazzino, insegna al Liceo classico “G. Chiabrera” in Savona,
ma è anche studioso di letteratura italiana, in particolare del Novecento, nonché
scrittore avendo edito una silloge poetica ed altri volumi di studio. Per qualche anno è
stato redattore della benemerita rivista “Resine” e collaboratore di altre. È mio
insegnante e ho desiderato proporgli un’intervista. Lo ringrazio d’averla accettata.

Caro Professore, ci può parlare della sua famiglia e della sua città?

La mia famiglia è composta da Alessandra, che ho sposato trentuno anni fa a Faenza, la città
dove è nata e dove vivono ancora sua madre, ultracentenaria, e diversi suoi fratelli. Abbiamo avuto un figlio, di nome Jacopo, che è un medico patologo attualmente in servizio presso l’ospedale San Martino di Genova. Ho anche una sorella minore, di nome Annamaria, che vive a Varazze. Della mia città (paese, forse meglio) che posso dire? Sulle cartoline pubblicitarie si trovava scritto ridente località balneare. In effetti qualcosa per cui ridere ogni tanto capita, ad esempio ricordo che tempo fa era ancorato in rada lo yacht dell’oligarca russo Melnichenko, a quanto pare il più grande yacht a vela (credo si dica sailing yacht) mai costruito e che è stato recentemente sequestrato a Trieste nell’ambito delle sanzioni contro la Federazione russa. Un noto gelataio mio concittadino – a Varazze si fa un ottimo gelato – ha preso l’iniziativa di salire su una barchetta per portargli in omaggio il prodotto della sua
bottega. Facciamo insomma beneficenza perfino ai miliardari, tanto ce la passiamo bene da queste parti: ciò dimostra anche come il nostro innato senso di carità cristiana, la filantropia nostrana non abbia davvero confini.
Comunque credo che tutti quelli che leggono queste parole conoscano Varazze, non si tratta
di un luogo esotico o misterioso. C’è un bel golfo, il mare luminoso, alle spalle il Monte
Beigua. È alquanto congestionata a luglio e agosto (dai turisti, milanesi per lo più), ma per il resto dell’anno ritorna abbastanza tranquilla e decente. Un po’ meno verde e bella di qualche anno fa, ma in fondo ci sono posti peggiori.

Perché ha cominciato a scrivere?

Intanto perché un bravo maestro elementare me l’ha insegnato… a parte gli scherzi: forse
avevo la sensazione di aver qualcosa da dire.

Quali son state le sue prime pubblicazioni?

Le primissime cose che ho pubblicato, sono stati testi creativi apparsi su riviste dell’area della sperimentazione, di alcune della quali son stato anche redattore, negli anni Ottanta. Poco dopo saggi critici, ad esempio su «La Rassegna della Letteratura Italiana», diretta da Walter Binni e su altre riviste, come «Il Ponte» di Firenze. Quindi sono uscite alcune monografie critiche ed edizioni di testi del Novecento da me curate per vari editori di Milano, Torino ecc.

Perché si è innamorato della letteratura?

Direi che me ne sono interessato attivamente, più che innamorato. Intanto perché la
letteratura è il più straordinario serbatoio di tutta l’esperienza umana. Leggere libri significa vivere molte vite, come scrisse Umberto Eco in un suo aforisma, incontrare altri mondi, altri paesaggi, altri tempi che diversamente non potremmo conoscere. Significa insomma dilatare i margini della
propria esistenza. Poi perché la letteratura ripristina la funzione della parola, sottraendola all’espressione dell’insignificanza, che domina in molti altri contesti comunicativi, non solo
in quello dei media sociali oggi tanto in voga. Ma non apprezzo la tendenza, purtroppo anche responsabilità della scuola, di mettere gli autori maggiori e le loro opere su un piedistallo, di monumentalizzarli e quindi sterilizzarli canonizzandoli. Preferisco insomma un atteggiamento critico e dialettico, che è poi il vero modo di dialogare con loro, nonostante il tempo che ci divide.

Quale è la funzione della poesia nel mondo odierno?

Come scrisse Montale, la poesia non serve a nulla, però non fa nemmeno male.
Direi senza troppi giri di parole che è ad ogni modo quasi completamente sparita dall’orizzonte letterario. È diventata un po’ un vezzo, un’ambizione di persone appassionate che “fanno” i poeti senza esserlo affatto. Per gli editori che contano il libro di poesia è un po’ come la cravatta: non serve a nulla e non dà alcun ritorno, ma sta bene, quindi ogni tanto bisogna metterla.
L’unica poesia che, in termini di vendite, “funziona” è quella che si collega al circuito
generato dal sistema scolastico, da sempre alquanto disattento all’arte e alla cultura
contemporanea, per cui nessuno o quasi legge la poesia contemporanea o va oltre quei testi e
quegli autori che si trovano nelle antologie scolastiche e che vengono loro inflitti durante
l’adolescenza.
A parte queste considerazioni, direi che la poesia, quando non sia quella istituzionale o dei pochi, veri originali poeti, è sovente la manifestazione di una strana forma dilettantistica di narcisismo a contenuto depressivo. Il poeta dev’essere sufficientemente depresso per essere
legittimato in quanto tale.
In Italia ci sono alcune migliaia di individui che scrivono versi da loro stessi poi stampati: in ciò soprattutto consiste oggi, in meri termini quantitativi e dunque sociologicamente significativi, la poesia in Italia. Insomma, si potrebbe dire, a fronte di un esiguo numero di lettori di poesia, che ci sia molta  brava gente versificante che stampa libretti autoprodotti. È quella che nel mondo anglosassone vien chiamata vanity press.
Nella quasi totalità dei casi sarebbe bene non lo facessero e si dedicassero a qualche altra
attività, più utile per sé stessi e gli altri, idonea a fugare quelli che di solito chiamano i loro
“fantasmi interiori”; anche perché sviluppano, si fa per dire, in maniera confusa vaghe idee e
sensazioni che hanno in mente e rimbalzano nella cavità del loro cranio, pensando che sia
sufficiente dar mostra di un linguaggio ermetizzante e condito da qualche anastrofe per manifestarsi poeta.
La tiratura di un libro nuovo di poesia contemporanea, affidato anche a un editore non infimo, è ben inferiore al numero complessivo dei versificatori dilettanti: quando va bene si
aggira intorno al migliaio di copie. Se non ricordo male il rapporto è di uno a quindici, cioè i versificanti sono molti di più dei previsti lettori di un decente libro di poesia, tra cui si
dovrebbe comprendere, in un contesto sano, anche un congruo numero di onesti non
versificanti.
Cardarelli scrisse che è sufficiente che i poeti si intendano tra loro: oggi siamo ben sotto tale
soglia, dal momento che neppure si leggono tra loro. Dico questo con tutta l’esasperazione
del caso ma senza alcun compiacimento apocalittico. Aggiungo che la situazione impone la questione se sia possibile oggi la poesia tout-court.
Rispondendo di sì, aggiungo come tale operazione varrebbe solo nel caso acquistasse un senso diverso da quelli sopra descritti, ricalibrandone cioè linguaggio e contesti.
L’espressione di sentimenti che abbiamo tutti è, in fin dei conti, abbastanza irrilevante, conta
molto di più il lavoro critico sul linguaggio. A ciò aggiungerei che non solo la poesia civile
oggi sarebbe possibile, ma direi inevitabile. Sarebbe anche opportuna una poesia politica, ma bisognerebbe che prima politica davvero ci fosse.

Che pensa della cultura nel ponente ligure?

Cultura è un termine molto vasto, che comprende diversi aspetti dell’attività e
dell’organizzazione umana. Di per sé, dal momento che mi chiedi di un ambito locale, che comprende due province, direi che ha tutti i tratti del provincialismo in quanto tale, anche
antropologicamente inteso, con qualche sua sfumatura. Un certo gusto paralizzante per le
interdizioni reciproche, un grado rilevante di angustia, tanto velleitarismo e una sostanziale
indifferenza ne sono le componenti. Qualche decennio fa la provincia savonese sembrava un
po’ meglio di quella dell’estremo ponente, oggi direi che non vi sono troppe differenze.
Ti faccio un esempio per comprendere meglio: in una sua prosa Sbarbaro lamentava che a
Finale Ligure, città natale di Giovanni Boine, non ci fosse neppure un vicolo dedicato alla sua memoria. Per fortuna oggi c’è addirittura una piazza; però a Savona, in questi cinquant’anni che ci separano dalla morte del poeta, nessuno ha mai pensato di dedicare un vicolo proprio a Sbarbaro stesso, che è stato uno dei maggiori poeti italiani del Novecento. A Roma, Milano, Genova, Carcare, Spotorno, Rapallo, Santa Margherita ecc. puoi trovare vie o piazze dedicate a questo scrittore che ha vissuto a Savona e l’ha rappresentata, col suo territorio, nei propri scritti; anche Finale gli ha dedicato una via.
Savona no, e neppure Varazze, dove il poeta ha trascorso l’infanzia … mi sembra che si tratti
di un esempio abbastanza chiaro e che non servano troppe altre parole al proposito.

Come descriverebbe la sua scuola preferita?

La mia scuola preferita è una scuola pubblica, situata in un edificio adeguato alle sue
esigenze, con tutti gli strumenti e le dotazioni che le servono, una scuola che metta sullo
stesso piano di partenza tutti i suoi studenti e che sappia poi valorizzare i meriti dei migliori,
dopo aver aiutato quelli in difficoltà; una scuola che sappia orientare i giovani secondo le loro reali attitudini e capacità. Non una scuola azienda in competizione con le altre, insomma, ma un’istituzione che rappresenti al meglio sul territorio l’offerta formativa che le compete.

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