Fabrizio De André, meglio noto come l’Indiano, rappresenta una fase particolare della discografia del cantautore genovese, con una visione più ampia, carica di significati nuovi. Non soltanto per il cambio di decennio – che porta sempre nuove prospettive artistiche -, dal 1978 di Rimini al 1981 dell’Indiano; si sono conclusi gli anni di piombo , culminati con l’uccisione di Aldo Moro, l’alba di una fase che avrebbe portato l’Italia ad un punto molto delicato politicamente.


C’è infatti un’altra differenza  tra Rimini l’Indiano,  che riguarda  una dimensione molto più intima dell’autore ed ebbe la durata di poco meno di 4 mesi, (tra l’agosto e il dicembre del 1979): fu il periodo che Fabrizio de André e  la moglie Dori Ghezzi passarono tra le montagne di Pattada, nel centro nord dell’isola, rapiti dalla mafia sarda. 

Non possiamo conoscere i pensieri più profondi del De André uscito illeso dal sequestro, ma  è sicuro che certi stati d’animo, insieme ad alcune riflessioni originate dalla tragica esperienza tra i monti sardi, confluiscono dell’album dell’ 81.

Quando Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi vennero rapiti

Naturalmente l’Indiano non è un disco sul sequestro. Come in tutti gli album di De André, i temi dispiegati nelle canzoni sono universali, come le suggestioni che offrono: sembrano raccontare una storia precisa, ma ogni ascolto finisce per raggiungere una moltitudine di significati; ogni brano parla a tutti per la forza delle parole, oltre che per l’incanto della voce che li scandisce. Nel caso dell‘Indiano, il carattere dell’album arriva già dalla copertina, dove non vi è titolo né nome dell’artista, ma soltanto un’immagine, il ritratto di un nativo americano, vista su di un libro.

√ Fabrizio De André - FABRIZIO DE ANDRÉ (INDIANO) - la recensione di Rockol.it

La Sardegna è la terra di cui Fabrizio de André si è innamorato nel 1968, acquistando una tenuta qualche anno più tardi in Gallura. Nel corso dei soggiorni nell’isola, conosce la storia del luogo e il carattere degli abitanti; e, attraverso la drammatica vicenda del sequestro, prende forma in lui il parallelo tra due popoli: quello sardo e quello dei nativi americani. E’ solo una suggestione, la tragedia della popolazione nativa americana fu, di fatto, uno sterminio tra i più feroci consumati nella storia.

In comune, tuttavia, i due popoli hanno le colonizzazioni subite nel tempo e la fierezza della resistenza, oltre che la purezza del loro mondo, pieno delle loro tradizioni. E se ogni album di De André possiede una chiave, quella per accedere al “racconto degli indiani” contenuta nell’album è Fiume Sand Creek,  pezzo tra i più celebri del cantautore genovese. 

Fiume Sand Creek riprende l’ episodio storico del massacro di una tribù ad opera delle truppe militari degli Stati Uniti: nel 1864, il 29 novembre, il colonnello John Chivington, con 700 uomini, attacca un accampamento di nativi delle tribù Cheyenne e Arapaho, infrangendo i trattati di pace vigenti. Inermi e presi alla sprovvista dalla furia degli uomini  di Chivington, i nativi registrano la morte di centinaia di persone, compreso un numero elevato di donne e bambini. Nel brano riecheggia la sorpresa dell’assalto, quando viene ricordata la circostanza per cui molti dei guerrieri nativi erano assenti dal campo, intenti a cacciare. Il narratore della canzone è un bambino, così incredulo davanti al massacro da credere che si tratti di un brutto sogno. Scritta seguendo i canoni della ballata tradizionale ma con un arrangiamento ricco di sfumature – percussioni, i cori, l’ingresso di un organo -, Fiume Sand Creek trasmette la gravità dell’episodio, riuscendo a scendere fino al cuore, motivo del brano.

[…]”Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek”

Nella scaletta dell’Indiano, Sand Creek arriva terza, dopo il graffiante blues in apertura di Quello Che Non Ho: la canzone si apre con il suono di spari e urla registrati durante una battuta al cinghiale condotta in Gallura, poi vengono le dolci note del canto del servo pastore, il racconto di un uomo adulto eppure ancora senza nome, un vagabondo errante dagli echi leopardiani. Pianoforte e chitarra descrivono la notte luminosa, vista dagli occhi solitari di un uomo che affida al cielo riflessioni che si aprono al di là dell’orizzonte visibile.

L’Ave Maria cantata in lingua sarda da Mark Harris, collaboratore durante le registrazioni dell’album, riporta il disco nel cuore dell’isola. Con il brano cantato da Harris, la Sardegna è sovrapposta al racconto “nativo” portato avanti fino ad ora. Ma il pezzo successivo,  Hotel Supramonte, entra ulteriormente nei contorni della terra cara a Fabrizio De André, ricordando i giorni drammatici del sequestro con Dori Ghezzi. Con arrangiamenti essenziali, di influenza coheniana, Hotel Supramonte rientra esattamente in quel genere di canzoni in grado di parlare a tutti, uno dei capolavori che costellano  la discografia di Fabrizio De André.

Dopo il folk di Franziska e la ballata stralunata di Se Ti Tagliassero a Pezzetti, l’album è chiuso dal reggaeggiante Verdi pascoli, là dove si compie infine l’incontro tra i colori lussureggianti della Sardegna e il paradiso sognato dai nativi d’ America.

E’ l’immediatezza dell’album a definirlo nel momento stesso in cui viene pubblicato. Le testimonianze sottolineano non solo il momento artistico di Faber, ma soprattutto la sua intenzione di raccontare una storia con la linea di un concept album, la forza della musica e l’intenzione di unire spazi lontani ma vicini nella doglienza umana. Un disco che il tempo non ha scalfito, ma anzi ha arricchito di contorni, dal momento che i popoli che soffrono e che rischiano di scomparire, diseredati in generale e poveri, come dice Dori Ghezzi, “non sono la minoranza, ma la maggioranza dell’umanità”.

Fabrizio De André in 10 canzoni: le più belle e famose di sempre - Foto Style


 

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