“Temevo che essi indovinassero l’angoscia che stava invadendomi al pensiero che effettivamente potessero mandare ad effetto le loro minacce.”

La tortura, adottata dall’uomo sin dalla sua nascita, è mezzo col quale afferma la propria egemonia umana. 

Il processo del “torturare” è lungo e tortuoso, e non vi è mai una fazione in questo campo che abbia completamente ragione o totalmente torto: ogni caso deve essere analizzato in modo storico, cercando di evidenziare le modalità usate e il contesto attraversato. 

La tortura, a differenza di ciò che si afferma, è umana, anche solo un semplice sillogismo lo conferma. “L’uomo può compiere solo atti umani”, “l’uomo può torturare”, “la tortura è umana”. Si dice spesso che il supplizio inflitto da un essere umano a un suo simile sia effettivamente inumano, ma sarebbe impossibile dichiarare ciò, proprio perchè l’uomo è perfettamente in grado di farlo quindi o lo si dichiara come Dio, se lo si pensa come essere inumano, oppure come semplice individuo. 

Il processo che accosta all’uomo il termine torturatore può dunque avvenire in diversi modi. 

È assai difficile che in tempi moderni si trovi un individuo che tortura senza essere portato a farlo da un’ideologia o peggio ancora costretto da un altro soggetto il quale, però, ordina di torturare senza sporcarsi le mani. Si può quindi dedurre che non è l’uomo che crea la tortura, ma la tortura che plasma  il torturatore. 

Io non divento colui che affligge di supplizi finché non opero su un uomo che verrà torturato. 

Come suggerisce Sartre nella sua prefazione a “La Question” del sopravvissuto algerino Henri Alleg, il meccanismo che porta alla tortura parte dall’incontro tra un uomo, colui che diverrà colonizzatore, spagnolo ad esempio, e un altro, un individuo che si trasformerà in colonizzato. 

Ci sono due passaggi che vedono come estremi questi due individui; un primo passaggio è dato dall’arrivo del colonizzatore, considerato tale secondo diritto divino, e un indigeno, trattato da umanoide o  parte di una sottospecie umana , senza il famoso diritto religioso. Quando l’incontro tra i due si fa più “intimo” il colonizzatore capisce che colui che sta trattando come una bestia, è in realtà uomo tanto quanto lui; per perpetuare il rapporto oppressore- oppresso, è quindi necessario infliggere delle pene e delle torture che lo rendano la bestia che non è. In un secondo momento perciò, si considera l’altro sullo stesso livello biologico (non più uomo-bestia, ma uomo-uomo), ma essendoci il bisogno di continuare la propria affermazione di uomo superiore, il colonizzatore rende il sottomesso, tramite torture o leggi che torturano l’essere, un uomo-bestia. 

Colui che viene torturato, resistendo, è sicuramente più forte del soggetto che infligge il supplizio.

Se si cambiassero i ruoli, colui che prima torturava non saprebbe resistere sotto la sua stessa tortura: cadrebbe a terra esanime, urlando a squarciagola tutto ciò che sa. 

Alleg si dichiara vincitore nel momento in cui viene liberato poiché, non avendo proferito parola, ma avendo resistito a tutte le pene inflitte come il  soffocamento, le scariche elettriche e  bruciature tramite fuoco, non servirebbe a nulla tenerlo in prigione o ucciderlo. 

Quello della guerra in Algeria, è un panorama diverso per quanto riguarda i metodi di prigionia o tortura. I pieds noirs non hanno come fine ultimo quello di uccidere i musulmani o chi non la pensa come loro, bensì quello di trarre il maggior numero di informazioni possibile per continuare a  rendere l’Algeria loro possedimento. Molti di loro erano anche direttori di periodici o giornalisti di stampo repubblicano e possedevano un gran numero di informazioni. I torturatori, i quali  spesso erano francesi di Francia costretti a combattere senza sapere ciò che li aspettava, cercavano di appropriarsi di queste notizie tramite appunto i vari supplizi. 

Ma se il loro intento falliva o l’individuo torturato non moriva durante i vari metodi di tortura, il gioco finiva lì e spesso il prigioniero veniva messo in libertà se non aveva precedenti criminali.

Ovviamente in altri contesti dove la tortura veniva utilizzata il processo non era lo stesso.  

Si parla, a volte, di una tortura che ha un amaro gusto di morte, quindi che prepara all’uccisione, spesso senza conoscenza dell’intero processo  da parte dei poveri condannati, come nel caso della Shoah. 

Nel lager, prima di mandare i prigionieri nelle docce, essi venivano torturati tramite privazioni: mancanza di cibo, di acqua e di vestiti consoni. Gli Ebrei, con il quale termine indico tutti gli individui che hanno perso la vita in questo modo (omosessuali, portatori di handicap, prigionieri di guerra), nella maggior parte dei casi, non sapevano di essere condannati alla  tortura e alla morte,  a volte anche mentre erano soggetti a supplizi. 

Nel quasi sconosciuto genocidio armeno, avvenuto tra la primavera del 1915 e il 1923, quasi 1,5 milioni di individui morirono sotto le grinfie dell’Impero Ottomano e dei suoi “Giovani Turchi”. 

Gli armeni considerano questo genocidio come “il grande crimine”: essi erano soggetti a pene delle quali si sa poco e niente, per poi morire in veri e propri campi di concentramento. 

Per anni e tutt’ora la Turchia nega questa di aver inflitto questa sorte al popolo armeno: c’è un forte senso di deresponsabilizzazione nei confronti del termine “oppressione”, quindi i “torturatori” non si considerano tali non classificando tantomeno come “torturata” la popolazione armena. 

Ciò per dire che essere un torturatore e ammetterlo è un enorme gesto, un gesto che viene considerato umano. La tortura come l’uccisione sono, ai miei occhi, due situazioni obbrobriose, ma pur sempre umane e vicine a me. Non le considero corrette, le condanno dal punto di vista umanista , ma proprio perché sono tali, non si possono sempre classificare in modo dualistico: andrei a mistificarle.

Nel caso dell’Algeria, la maggior parte di coloro che soffocavano il suppliziato, nella speranza che egli parlasse, molto probabilmente volevano essere ovunque ma non lì, sentendosi ancor più codardi, poiché a differenza dei soggetti a cui stavano facendo del male, essi non stavano sfidando morte, la stavano materializzando nelle vite altrui. 

Il non guardare in faccia la realtà porta ad un allontanamento da essa. La tortura, come la guerra o la fame, non sono sovraumane o lungi da noi, esse vivono e persistono nelle nostre esistenze, rendono l’essere umano ancor più umano. 

Ho concluso la descrizione delle torture. Mai ho scritto con altrettanta pena. Forse tutto ciò che mi è successo è ancora troppo fresco nella mia memoria. Eppure scrivo con il pensiero che, passato per me, questo incubo e vissuto da altri nello stesso istante in cui io stendo queste note e che lo sarà fintantoché non avrà fine questa odiosa guerra . Era necessario che dicessi tutto ciò che so, E un compito che io debbo assolvere, dinanzi a Au-di «scomparso», a tutti coloro che vengono umiliati  e torturati; a tutti coloro che continuano la lotta con coraggio. Lo devo questo impegno a  quanti, ogni giorno, muoiono per la libertà del loro paese.”

Portare il concetto di tortura nella cultura, quasi da “normalizzarla”, è il primo passo per soffocare l’ignoranza e porre fine al regime di disconoscimento e  di deresponsabilizzazione di queste pratiche. 

Ciò che dovrebbe smuovere il pensiero è la consapevolezza che in questo momento, ieri come domani, una massa di gente possa essere sottoposta alla peggior tortura, uccisa a norma di regola con il supplizio perfetto, macellata per esser messa sul banco della compassione.

Noi, sul cocuzzolo della montagna, protetti apparentemente dal velo della nostra cultura, guardiamo con aria distaccata ma saccente il soggetto che tortura e l’oggetto che la subisce: ma chi siamo per emanare l’ultima sentenza, senza avere un briciolo di conoscenza reale e oggettiva  dei fatti? Come facciamo a vivere secondo coscienza con tutto ciò che ci circonda senza provare un senso di coinvolgimento in ognuno dei fatti? Lottare per la libertà di tutti, vuol dire far conoscere la libertà  a ognuno, facendo osservare ad ogni individuo la propria condizione umana, cercando di distruggere quei meccanismi forzati come la  tortura, sopravvivendo ad essi, o perendo, come simbolo di libertà o liberazione. 

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