Saragozza, 21 Febbraio 1809

Cara madre,

oggi l’Armata Francese ha bombardato con mille e mille granade e bombe e alla fine abbiamo fatto la resa e i Francesi mi hanno preso prigioniero e io mi sono trovato di nuovo con loro, dopo che mi avevano preso gli spagnuoli e ho accettato di fare ancora il servizio per non finire nelle carceri a patire la fame e i tormenti.

Don Carlo leggeva piano, con il tono con cui si legge ai bambini e la sciura Caterina scuoteva impercettibilmente la testa a destra e a sinistra come per scacciar via quelle parole. Questo era il secondo figlio che si portava via l’Imperatore. Il primo, Pietro, non appena aveva sentito che a Vado cominciavano ad arrivare le lettere di arruolamento aveva cacciato una bestemmia, aveva preparato il sacco ed era partito verso Carcare dove stavano i cugini. Aveva in testa di confondersi con i pastori e fare inverno lì, finché non passava la tempesta. Da allora non s’era più visto e tra poco erano due anni. Per di più c’era quella legge sui renitenti che era chiara chiara: le spese per cercare chi sfuggiva alla leva le doveva pagare la famiglia del fuggiasco. C’era stato niente da fare a protestare e dire che lei questo figlio non lo vedeva da quando gli era spuntata la barba e che il marito stava tutto il giorno in quelle quattro fasce che avevano sotto il sole e che tra quello e il suo mestiere di rammendatrice non mettevano nemmeno insieme la colazione con la cena: le spese spettavano a loro e che lei si rassegnasse. Da lì in poi fino alla cattura, che sicuramente sarebbe avvenuta presto, gli esattori sarebbero passati una volta ogni due settimane a ritirare i franchi. 

Per Giobatta, il figlio più piccolo, i gendarmi non avevano fatto lo stesso errore. Senza aspettare che sentisse voci di leva imminente e prendesse il volo come il fratello, si erano presentati una mattina che non era ancora chiaro e lo avevano portato soldato senza nemmeno dargli il tempo di salutare seu puè che era alla campagna e la Marietta che gli era promessa e stava solo due cascine più sotto. 

Dopo quella mattina erano trascorsi quasi sette mesi senza poter sapere nulla e Caterina aveva cercato di non passare più davanti all’uscio della Marietta per non vedere la sua faccia alla finestra sempre a guardare la curva del sentiero. Intanto il tempo passava e ne era trascorso quasi quello che ci vuole a farne uno nuovo, di figieu, ma la vita, la sua e quella di seu màio, non scorreva come era sempre stata. Non solo perché ora non c’erano più quattro braccia a dare mano in campagna ma perché ogni giorno i francesi se ne inventavano una nuova. Non bastavano i nomi delle strade cambiati e tutte le carte scritte nella loro benedetta lingua. A un certo punto si erano messi in testa che dovevano tutti lasciar perdere la vigna per mettersi a coltivare il cotone o le betterave come dicono loro, che qui si chiamano giærâve e che il parroco dice che il nome giusto è barbabietole. Don Carlo diceva che ci volevano fare lo zucchero visto che gli inglesi non facevano più passare le loro navi che vengono di lontano. Diceva anche che c’era quel signore Sciabrol2 a Savona che passava tutto il tempo a vedere quello che facevano i meschinetti e studiava come avrebbero dovuto farlo in un altro modo. 

La sera che il marito doveva vedere tutti gli altri contadini in parrocchia per parlare di quella benedetta storia delle giærâve lei gli aveva comunicato che l’avrebbe accompagnato perché era curiosa di sentire quel che si sarebbe detto. Non era questo il vero motivo: sin dalla mattina si teneva tra le pieghe del vestito una lettera che non vedeva l’ora di farsi leggere dal parroco prima di parlarne al marito perché era sicura che fosse di Giobatta ma non era sicura che contenesse buone notizie. 

30 Luglio 1808

Cara Madre,

sono a qui a darve nove delle mie pene. Otto giorni orsono abbiamo fatto una grande sconfitta e io e tutti i camerati siamo stati prigionieri degli spagnoli. Dopo che siamo stati presi siamo sempre stati menati più peggio che se fossimo stati i più grossi ladri e quando passavamo nei paesi tutti le donne e gli uomini e persino i figetti ci tiravano le prie e ci volevano amassare. Poi ci hanno detto che se volevamo avere la vita dovevamo entrare nella truppa degli spagnoli e io ho detto sì.

Dunque Giobatta era salvo! Che importa che fosse con gli spagnoli o con i turchi! Quella sera Caterina lo aveva detto a Luigi e un po’ per quello un po’ perché le giærâve avevano deciso di farle mettere a quelli di Ceva, avevano passato una serata quasi bella bevendo un po’ del vino della domenica. Sembrava passato un attimo da quella lettera e invece era trascorso tutto l’inverno. Un inverno in cui Caterina non aveva mai smesso di sperare che la guerra in Spagna finisse una buona volta e Giobatta fosse lasciato libero dagli spagnoli. Ecco invece che apprendeva dalla voce del parroco che il figlio era diventato turna francese e chissà adesso dove lo avrebbero mandato. Così sciura Caterina, un po’ più curva, un po’ più vecchia se ne tornò alla casa a rammendare ed aspettare i figli. Lei che aveva sempre badato ai fatti propri e non si era mai occupata dei grandi fatti del mondo cominciò a prestare l’orecchio alle notizie che correvano sulle bocche dei paesani e addirittura qualche volta, a messa finita, a chiedere a Don Carlo se c’erano di nuove. Il prete allora, se ne aveva voglia, raccontava e quando doveva nominare l’Imperatore lo chiamava “il demonio” e si segnava due volte con la mano destra. Caterina sentiva così dell’incendio che correva per i posti più lontani dell’Europa e della Russia, della caduta e dell’esilio, del ritorno e della guerra e ogni volta sperava e tremava e si sentiva sopraffatta. 

Dovevano passare ancora sei anni prima che tutto finisse e Pietro comparisse una bella mattina dal sentiero dei castagni e altri sei mesi perché Giobatta scrivesse che era sbarcato a Genova ed entro pochi giorni sarebbe stato ancora a casa. “Sarà tutto come se non fosse mai successo niente” avrebbe detto don Carlo il giorno prima all’omelia, ma nessuno avrebbe applaudito.    

1 Questo racconto, pur essendo ispirato a fatti storici e a documenti esistenti, è frutto della fantasia dell’autore

2 Gilbert Chabrol de Volvic, prefetto del Dipartimento di Montenotte (1806-1812). A cui è titolata P.zza Chabrol nel cuore del centro storico.

Piccola nota storica

Si dice che i grandi eventi storici il più delle volte non siano riconosciuti da chi li vive in prima persona. Che siano i posteri a decidere se un fatto, un personaggio siano “grandi”, “cruciali”, “epocali”, mentre i contemporanei spesso nemmeno si accorgono, disattenti, di star vivendo la Storia. 

Pare così che la caduta di Roma sia passata per lo più inosservata, senza far nemmeno lontanamente lo scalpore del sacco che la città eterna aveva subito sessantasei anni prima, vero 11 settembre del mondo antico. E che Romolo Augustolo, che occupa stabilmente un neurone nel cerebro di ogni studente occidentale, fosse praticamente un signor nessuno per chi viveva in quel tempo che oggi noi consideriamo un imprescindibile spartiacque. E che la “scoperta” dell’America di fatto non sia stato neanche considerata, al contrario della caduta di Costantinopoli che, quella sì, aveva sconvolto tutta la Cristianità.

Ma anche se tutto questo fosse vero, come sembra, una cosa è certa: Napoleone non risponde a questa legge. Non sono i posteri ad aver deciso che Napoleone è Napoleone.

Tutto il mondo, al solo sentirlo nominare, conosceva Napoleone, e metà di quelli che lo sapevano fremeva di entusiasmo e l’altra metà tremava. Quando, il 25 maggio 1805, il Senato Ligure votò l’annessione della Liguria all’Impero Francese, non esisteva suddito o cittadino, popolano o borghese, ciabattino, contadino o pescatore che non sapesse chi era Napoleone. E se questo era vero pressoché ovunque in Europa, in Liguria era più vero che altrove perché da qui per la prima volta l’esercito della Francia rivoluzionaria era entrato in Italia e attraverso le valli liguri aveva iniziato la sua avanzata nella penisola. 

Subito, all’indomani della “riunione”, vennero creati tre nuovi dipartimenti: Genova, Montenotte ed Appennini. Al Dipartimento di Montenotte, che aveva Savona come capoluogo, vennero aggregati i circondari di Ceva, Stura, Acqui e Tanaro. Molte volte nella storia “tutto era cambiato per poter rimanere com’era” ma questa volta era diverso. Questo non sembrava solo un cambio di bandiera che lasciava vita e abitudini quali erano sempre state. Divenuti sudditi dell’Imperatore e cittadini francesi, i liguri e i piemontesi si trovarono la vita, la quotidianità, cambiate radicalmente. Anagrafe e burocrazia, nomi delle strade, pianificazione dell’agricoltura e, soprattutto, leva militare obbligatoria, il sistema di reclutamento che era stato introdotto in Francia nel 1798 con la legge del 19 fruttidoro VI esteso a tutti i celibi che avevano raggiunto i 20 anni. 

Tra il 1805 e il 1814 gli uomini del Dipartimento di Montenotte reclutati furono oltre 12.000. Fu così che la piccola provincia di Savona si ritrovò catapultata in quella breve e violenta fiammata della storia che sta tra l’ascesa e la caduta di Napoleone Bonaparte. Nessuno lo sapeva ma niente dopo quel tempo, nemmeno qui,  sarebbe più stato come prima .

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