Ecco come la politica di destra sfrutta il protagonismo femminile trasformando le proprie leader nel cavallo di Troia vincente
La vittoria del centrodestra e la netta affermazione di Giorgia Meloni hanno immediatamente scatenato una serie di reazioni a livello nazionale e internazionale riguardo i temi più disparati, tra questi chi riflette sulla portata che la sua carica avrà nella lotta contro la disparità di genere.

Diverse testate giornalistiche, confondendo chiaramente il concetto di femminismo con quello di donnismo, parlano della sua scalata al governo come una conquista per tutte le donne, indipendentemente dalla sua storia politica o dalle sue proposte elettorali.
Credo che sia proprio questo il cuore della questione: davvero nel 2022 basta dire “è una donna” per affermare che un nuovo traguardo è stato tagliato?

La domanda diventa ancora più ostica se riflettiamo sul fatto che in Italia, ma in generale nel mondo, sono proprio i partiti di destra e di estrema destra, tradizionalmente e innegabilmente lontani dai valori femministi, ad aver lasciato spazio alle donne.

La contestatissima scrittrice Carla Lonzi aveva già individuato una plausibile spiegazione nel suo saggio Sputiamo su Hegel, in cui attraverso una rivoluzionaria presa di coscienza riguardo la posizione della donna nel mondo, aveva reso chiaro a noi lettrici come storicamente la donna abbia da sempre incarnato il ruolo dello spettatore di un’opera d’arte. In quanto tale non può minimamente proporre il proprio punto di vista o offrire un contributo creativo, le è solo concesso vivere nell’illusione del rapporto che le è stato imposto dall’uomo. Così, secondo lo stesso principio, le donne diventano per la politica un perfetto cavallo di Troia, usato abilmente per rendere meno impopolari le posizioni più conservatrici e offrire la possibilità ai partiti di destra di portare avanti le proprie campagne attraverso l’uso strumentale di donne ben lontane dal proposito di svuotare questi ambienti dalla misoginia che li contraddistingue.

È il caso di partiti come Forza Italia e la Lega che, sfruttando questo protagonismo femminile, sono riusciti a risvegliare più che mai la visione tradizionale e retrograda della maternità e della famiglia, della donna con la D maiuscola, quella che è madre e moglie, che è uno status, un brand, un’icona, un ideale stampato sulle copertine delle riviste di cucina, di giardinaggio o di gossip e che dovrebbe incarnare l’aspirazione ultima di tutte le donne.

Arriviamo così ad una deludente verità: solo le donne conservatrici arrivano ai vertici del potere, proprio perché fanno della tutela del modello patriarcale le fondamenta della loro politica.

Per comprendere realmente questa tendenza dobbiamo calarci nella psicologia di personaggi come Margaret Thatcher, tra le prime leader a sostenere che l’unico modo per riuscire a ritagliarsi il proprio spazio in un’arena tutta maschile, fosse indossare le sole vesti che la storia aveva mostrato come vincenti, ossia quelle di un uomo.

La stessa strategia è stata adottata dalle figure femminili più rilevanti degli ultimi anni: Christine Lagarde, Ursula Von Der Leyen, Roberta Metsola, Angela Merkel, Marine Le Pen. Per ognuna di loro esiste un vasto pubblico che ha quasi sicuramente urlato al progresso, considerando la loro ascesa in politica come un piccolo pezzo di puzzles che si aggiunge al grande progetto di un futuro equo e fatto di pari opportunità, ignorando però che proprio quei successi derivano dalla scelta ponderata di comportarsi come uomini, di utilizzare le loro stesse armi e di scegliere le loro stesse battaglie.

Dunque mentre vi domandate se quello di Giorgia Meloni sia davvero un traguardo per le donne, voglio portarvi a riflettere su un fattore che forse in questa analisi è stato trascurato. L’elettorato italiano, cattolico, conservatore e borghese, vota personaggi come il suo perché rappresentano l’uomo in cui l’altro uomo può identificarsi. Vota l’idea che gli sembra più efficace, ed è puntualmente l’idea che somiglia ad un uomo.

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